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Il disagio della modernità in una politica debole e in una società defuturizzata - di Micol Bruni

Il disagio della modernità in una politica debole e in una società defuturizzata

 

di Micol Bruni

 

 

 

Sottolinea Charles Taylor: “Governare una società contemporanea significa ricostruire continuamente un equilibrio tra esigenze che tendono ad annullarsi reciprocamente, trovare sempre nuove soluzioni creative ogniqualvolta le vecchie sistemazioni non funzionano più” (in Il disagio della modernità, Laterza). Ma l’interrogativo resta: chi potrà salvarci dalla modernità che non solo è in crisi ma sostanzialmente è in crisi la modernità come modello “post”, la stessa modernità è stata superata ma la post – modernità è ancora più in caduta libera. Le metafore che si vestono di ironia, a tal proposito, non mancano. 

      Oggi siamo attraversati da una società il cui processo che viviamo è defuturizzato, proprio perché la realtà della politica si è allontanata da quelle eredità che consideravamo storiche. Sulla base di che cosa si progetta un futuro? Non soltanto sulla base di una riappropriazione del concetto di cultura ma sulla base dei riferimenti valoriali che esprimono orizzonti di senso e un pensiero pensante che ci riporta ad una manifestazione di identità non fuori dall’essere ma dentro l’essere del nostro tempo.

      Thoruton Wilder che ha scritto un libro dal titolo Idi di marzo (Sellerio) afferma in una “Lettera – diario di Cesare a Lucio Manlio Turrino sull’isola di Capri” che: “Non abbiamo rapporti con nulla se non con qualcosa che abbiamo avvolto in un significato, e neppure sappiamo per certo quale sia questo significato, finché non siamo faticosamente riusciti a imporlo sull’oggetto”.

      Ecco allora il dato prioritario. Dobbiamo cercare di imporre il pensiero pensante dell’identità – progetto sulla desertificazione – strategia che occupa lo scenario di questo nostro tempo. Non possiamo considerarci soltanto i custodi di una manifestazione di radicamento ma dobbiamo fare in modo che questa identità che va letta, come dicevo, come le identità diventi sempre più laicamente un destino e religiosamente una profezia. Un processo esistenziale che si staglia nel nostro cammino.

      Ippocrate saluta il Senato e il popolo degli Abderiti con queste parole: “Felici i popoli che sanno che gli uomini di valore sono le loro migliori armi di difesa, e che fanno affidamento meno su torri e bastioni che sui saggi pareri dei saggi”. In una pagina de “Il Mondo” dell’1 maggio 1975 Gaspare Barbiellini Amidei riporta una citazione di Vittore Branca nella quale si sottolinea: “In genere si potrebbe dire che nessun potere svolge in Italia una vera e sistematica politica culturale: i partiti vogliono servirsi della cultura, ma così, con frettoloso strumentalismo”.

      E’ un dato certo che pone all’attenzione, comunque, il bisogno di una offerta culturale. Questo bisogno non può non avere nei valori condivisi una sua appartenenza. Non credo che il cosiddetto intellettuale, parola che a me piace senza affascinare, oggi sia attraversato, in questo “terreno molle” né dall’utopia né dalla malinconia. E’ vero che “Oggi è tramontato definitivamente il tempo di qualsiasi isolazionismo, sia esso economico, politico o mentale” come sostiene Wolf Lepenies in Ascesa e declino degli intellettuali in Europa (Laterza).

      Proprio perché forse si vive “in una società del presente”. Ma questo presente raccoglie la memoria che non è tempo perduto e il futuro che è sì tempo ritrovato. Vivere il presente è vivere la contemporaneità. Questa contemporaneità così come si presenta a noi è frammentazione.

      Ed è vero che “Una società frammentata è una società i cui membri trovano sempre più arduo riconoscersi comunitariamente nella loro società politica” afferma Charles Taylor ancora in Il disagio della modernità. Questo disagio ci dà la consapevolezza della frammentazione la quale “cresce nella misura in cui gli individui non s’identificano più con la loro comunità politica, e il loro senso di appartenenza a un insieme più ampio si orienta in una direzione diversa, o si atrofizza del tutto. (…) un’identità politica che si affievolisce rende più difficile una mobilitazione efficace, e un senso d’impotenza alimenta l’alienazione”.

      Quel ritrovare l’orizzonte di senso è proprio nella manifestazione di una riproposta di radici che diventa una decodificazione di un valore, che non è aggiunto, ma che è nel destino o nella profezia di una civiltà che va affermata nella sua sintesi tra i codici della cultura che devono disegnare quelli della politica.

      Il problema in fondo è proprio questo. I codici della cultura che sono codici di identità devono trasformare la politica in progettualità altrimenti si corre il rischio di gestire un falso potere amministrativo che non ha alcuna logica né sul piano di una definizione di mobilitazione meramente politica né su quello di una prospettiva i cui significati dovrebbero condurre ad una pedagogia dell’essere, del restare, delle appartenenze. Si pone il problema dell’organizzazione della cultura. Ma questa ha una sua specifica caratterizzazione solo se i riferimenti sono quelli valoriali.

      L’impegno che deve vedere il processo culturale al centro di una vera visione alternativa al confusionismo dilagante passa attraverso gli uomini, attraverso una tradizione, attraverso un radicamento, attraverso un senso di gratitudine verso quei “grandi fondatori di nobile dottrine” come sottolinea Seneca nel De brevitate vitae ma questo può accadere se siamo convinti che, come affermava il tardo Napoleone, “In politica l’avere il cuore posto nella testa è cosa degna di lode”.

      Dobbiamo fare i conti con la contemporaneità e soprattutto con il Novecento, secolo passato e presente. Con questo Secolo che ci ha lasciato in un’età del post – modernismo, la quale come dice Antiseri pone anche una questione di valori. Ma  c’è un allarme che, attenzione, non è allarmismo del quale dobbiamo tenere conto.

      Siamo dentro la civiltà, come comunità europea e come popolo che si caratterizza con le sue radici perché la tradizione cerca il futuro pur nella mutevolezza delle società e nei processi che si trasformano. Ecco perché la modernità è certamente un disagio in questo nostro tempo che è già oltre la stessa modernità ma va governata con gli strumenti dell’etica, della morale e della cultura.

 

 




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Luigi Palamara
Giornalista, Direttore Editoriale e Fondatore di MNews.IT
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