Editoriale di addio con saluto speciale a Bozzo: "Non lo abbiamo capito e aiutato, abbiamo commesso delle ingiustizie"
Piero Sansonetti: "l'Ora, fallimento di un'esperienza"
RENDE (Cosenza) – Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all'unanimità dall'assemblea ma all'editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d'uscita, l'altra sera siamo arrivati alla decisione dell'editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore.
Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l'assenza di "Diritto nel lavoro" il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l'assenza del diritto sia un male più grande ancora della 'ndrangheta e della criminalità organizzata.
Fallimento
Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E' una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: "è colpa sua, è colpa sua". E' semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male.
Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all'intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l'angoscia di essere cacciato dalla Calabria.
Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo.
La Calabria
Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l'illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un'altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l'uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell'economia e del potere. Il Diritto tende all'ugualianza. Ed è il contrario del Potere.
Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po' di esercito e un po' di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all'ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E' il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell'emigrazione – ma che io preferisco chiamare "la deportazione" – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l'occhio benevolo della Repubblica italiana. E' un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d'Italia.
Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la 'ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E' facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la 'ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle.
Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell'affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l'angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell'assenza delle classi sociali che hanno costruito l'Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c'è borghesia: c'è il padronato. E non c'è classe operaia: c'è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il "padronato", proprio con quell'accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, "rifiuti". Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: "rifiuti". Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa.
I giudici
Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell'opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente, che lui – Cafiero – poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l'appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.
Gli Editori
Ho lavorato per tre anni e mezzo con i miei editori, la famiglia Citrigno, e spesso mi è capitato di difendere uno di loro, Piero, dagli attacchi della magistratura che ho sempre considerato come un vero e proprio accanimento. Non è che ora, perché mi hanno licenziato, cambio la mia posizione. Ho conosciuto molto bene Piero Citrigno e credo di avere capito i suoi pregi, molti, e suoi difetti, moltissimi (e gli confermo simpatia e affetto). Il suo difetto principale è uno solo: è un padrone. Qui in Calabria ho conosciuto più da vicino il capitalismo: è una brutta bestia. Alla famiglia Citrigno lancio solo un appello: ci ripensi e ritiri la proposta di licenziamenti di massa. Spero – spero davvero – che mi darà retta.
Ringraziamenti
Ringrazio soprattutto i lettori. I tanti che ci sono stati vicini in questi anni. Ci hanno dato forza, convinzione, tranquillità. Mi dispiace moltissimo lasciarli. Mi ci trovavo proprio bene. Poi ringrazio tutti i giornalisti e i poligrafici, e i tecnici del giornale, una grande squadra, davvero. Che può avere un gran futuro. In particolare, ovviamente, ringrazio il mio caro amico vicedirettore, Davide Varì. Non faccio altri nomi (potrei, forse e mio malgrado, danneggiarli…). Ringrazio anche i giornalisti che in questi anni hanno lasciato il giornale, per tante ragioni, qualcuno polemicamente, anche con me: non escludo di avere avuto qualche colpa per il loro allontanamento.
E infine vorrei ringraziare – quasi fossi una persona perbene… – le autorità. Però c'è una sola autorità che ringrazio davvero. Lontanissima, da me e dalla mia cultura. Ma è l'unica che ho trovato veramente al fianco del popolo della Calabria, e quando è stato necessario anche al fianco del giornale: l'autorità ecclesiastica. E in particolare ringrazio due persone stupende: il vescovo Nunnari e il vescovo Morosini (anche gli altri, per carità, non si offendano: ma ci siamo conosciuti poco).
Un saluto speciale
E' chiaro che un saluto speciale lo rivolgo ad Alessandro Bozzo, ragazzo splendido, giornalista bravissimo, morto suicida poco meno di un anno fa. Lo ho scritto altre volte: nessuno sa spiegare un gesto così tragico e grandioso, come un suicidio. Ma tutti coloro che hanno vissuto accanto a lui, ed io per primo, si sentono in qualche modo responsabili: non lo abbiamo capito, non lo abbiamo aiutato, abbiamo commesso delle ingiustizie. E' così.
Arrivederci. Auguri a tutti, e soprattutto al mio successore Luciano Regolo. Non lo conosco personalmente. Mi dicono che sia un grande esperto di famiglie reali. Beh, qui in Calabria è pieno di famiglie reali: spero che troverà il modo per non farsi affascinare da loro e per tenerle a distanza. (l'Ora della Calabria)
Luigi Palamara
Giornalista, Direttore Editoriale e Fondatore di MNews.IT
Cell.: +39 338 10 30 287
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8 Commenti
Viaggio a Melissa
RispondiEliminaMi recai a Melissa la mattina dopo l’eccidio. Conosco quasi tutta la mia regione, ma a Melissa non mi era mai venuto fatto di andare prima di allora: Melissa destò nel mio animo un’impressione ancora più triste di quella suscitata da altre zone e da altri paesi, quasi una sensazione dolorosa i sconsolato e irrimediabile abbandono. La strada si ferma a qualche centinaio di metri dal paese; poi è un petroso sentiero dal quale, raggiunto l’abitato , si dipartono erti e scoscesi viottoli, su cui si aprono le porte dei miseri tuguri. Su un breve spiazzo, a lato del sentiero, mi vennero incontro un centinaio di contadini, che avevano allora accompagnato al Camposanto i due poveri uccisi. Parlai con essi e più ancora sentii da essi le parole che sgorgavano incisive e precise dal loro animo tuttora soggiogato dai fatti sanguinosi e si erano svolti il giorno prima. Cosa notabile però, e che subito infatti notai, dai loro pur commossi accenti di commiserazione e di esecrazione, non traspariva alcun senso di paura , o di abbattimento; vi era al fondo, ben presente la diffusa e temprante coscienza di un diritto , che poteva essere stato ferocemente manomesso, ma, che non cessava per questo di essere un diritto. E il contrasto tra la primitività e la miseria, delle cose, da una parte, e il sentimento nuovo che visibilmente animava gli uomini, dall’altra, mi si manifestò immediato con una impressionante evidenza.
Perché è questo appunto il fatto straordinario e significativo. Per anni e anni i contadini del Mezzogiorno hanno stentato la loro vita in una tragica vicenda: lunghi periodi di supina rassegnazione, appresa come una fatalità, senza rimedio e senza speranza, e poi improvviso, a grandi intervalli di tempo, lo scoppio terribile , di una collera selvaggia, che veniva subito repressa da una feroce reazione poliziesca e la cui eco si spegneva in una rassegnazione ancor più disperata . Da qualche anno a questa parte la vita contadina del Mezzogiorno ha un altro volto. Il mutamento non è stato certo improvviso, né è qui il caso di procedere a una disanima analitica delle molteplice cause di così interessante fenomeno. La realtà di una miseria e di una generale arretratezza che investe tutti i settori della vita collettiva, persiste, anzi si è col tempo e con inarrestabile irrompere di nuovi bisogni, aggravata; ma essa viene affrontata dai contadini con animo diverso e con una consapevolezza che, non è più soltanto relativa, dà al loro movimento il tono e il significato di un fatto il quale superata la fase dispersiva della azine individuale , si sviluppa nel più largo ambito della coscienza, di classe. Nella generale disgregazione sociale, che Antonio Gramsci indicava come la nota caratteristica della vita meridionale , il movimento contadino, nella misura e nel modo in cui ogni giorno si va meglio delineando, si inserisce come manifestazione di una volontà di liberazione che, pur nella sua necessaria spontaneità, ha perduto l’antico carattere di caotica esplosione per assumere la forma e la sostanza di un movimento collettivo, che attinge la sua forza nella disciplina, per quanto ancora imperfetta di una lotta consapevole . Erano stati appena composti nelle povere bare i corpi straziati di due uccisi di Melissa, e altre occupazioni di terre venivano realizzate nei paesi vicini da parte di intiere masse contadine, senza un solo episodio di violenza e di furia distruttrice, ma con al tenacia e la fermezza di chi sa di esercitare un diritto e non intende piegare all’altrui volontà sopraffattrice.
RispondiEliminaAll’alba d’ogni era è visibile una radiosa figura in cui s’incarnalo spirito del nuovo tempo. Viene nell’ora più buia, si leva come un sole e scaccia le tenebre e il ristagno che paralizzano il mondo. In un punto fra le pieghe nere che ora ci avvolgono come in un sudario sono certo che un altro essere è in gestazione, che attende solo l’ora zero per annunciarsi. La speranza non muore mai, la passione non può mai essere spenta del tutto. Il punto morto sarà superato . Ora dormiamo saporitamente nel bozzolo; ci sono voluti secoli e secoli per tessere quest’apparente tela di morte. Ma bastano pochi secondi per ridurla a brandelli. Ora siamo protesi su un ramo sospesi sul vuoto. Dovesse cedere l’albero tutto il creato s’avvierebbe fatalmente alla distruzione. Ma cos’è che ci dice d’affrettare l’ora della nascita ? Cos’è che, proprio al momento giusto ci da la sapienza e la forza di spiccare il volo, quando finora abbiamo solo saputo strisciare ignominiosamente sul ventre ? Se il bruco durante il sonno può mutarsi in farfalla, di certo l’uomo durante la sua lunga notte di travaglio troverà la sapienza e la forza di redimersi.
RispondiEliminaEnrhi Miller – RICORDATI DI RICORDARE - Einaudi 1965 (pag27- 28)
Mi dicono che l’on. Mancini ci prende in giro accusandoci di gracchiamo cioè di contadinismo. Ha poco da scherzare il compagno Mancini. Provi a immaginare cosa sarebbe oggi la Calabria se qualcuno che egli conosce meglio di noi, dopo Melissa, non avesse tradito e messo il bastone fra le ruote al movimento dei contadini calabresi. Certo non ci sarebbe la miseria attuale. Probabilmente ci sarebbe l’industrializzazione. Si aggiorni il compagno Mancini ! Perfino la rivista dell’On. Colombo riconosce ormai ( cito pressocchè testualmente) che senza affrontare il problema dell’occupazione non può realizzarsi l’ipotizzata corrispondenza fra l’industrializzazione e sviluppo economico , in quanto dal saggio di incremento dell’occupazione e dal suo livello assoluto vengono a dipendere in larga misura, non solo alcuni dei più rilevanti fenomeni di distribuzione del reddito, ma anche il saggio di diffusione e di acquisizione di nuovi e più rilevanti di vita e cioè, in ultima analisi, l’articolazione e la crescita della stessa struttura sociale.
RispondiEliminaPer chi non conosce le campagne meridionali non è facile spiegarsi i motivi che hanno mosso i contadini, nel corso dei secoli, a cercare di riappropriarsi sempre delle stesse terre, nelle stesse zone di alcune provincie meridionali. sempre quelle e non altre. non era stata certo l'adesione cosciente ad un'ideologia particolare , ma la consapevolezza che sui quei campi le comunità contadine avevano dei diritti molto antichi; così nel 1848, come racconta Vincenzo Padula in uno dei suoi articoli ripubblicati in Persone in Calabria, " l'ira popolare fino allora compressa finalmente scoppiò. Le popolazioni guidate dai più vecchi contadini vecchi contadini ch'ivano innanzi portando in mano Crocefissi e Madonne irruppero nei terreni usurpati: illegale era quel procedere, e niuno il niega: si commisero atti di vandalismo, ed è verissimo; ma un diritti sacro e imprescrittibile era in fondo a quel movimento, ed anche questo è innegabile. Che fecero gli usurpatori? Si giovarono della reazione borbonica ed accusarono come comunisti e discepoli di Fourier i nostri poveri tangheri” quando essi furono processati in tribunale e “ il giudice gravemente gl’interrogava: “ siete voi socialisti ? “ non sapevano cosa rispondere perché non conoscevano neppure il significato del termine socialista e si credevano trasportato nella valle degli incantesimi. ( pag. 573 dell’edizione a cura di Muscetta , Milano 1950
RispondiEliminaMa c’è di più. Lo stesso fondo Fragalà ove la polizia perpetrò l’eccidio dei contadini, nel 1949, risulta , dagli accertamento demaniali fatti, essere il primo dei demani feudali che il Commissario ripartitore assegnò nel 1811 al Comune di Melissa ; nell’archivio del Comune, fra le vecchie ricevute dell’imposta fondiaria pagata dal Comune, abbiamo trovato - per gli anni 1883, 1884 e 1885 – anche quelle relative al fondo di Fragalà, ove la polizia di Scelba ha assassinato i tre contadini; per cui il reparto della “celere” al comando del Commissario Rossi, guidato sul fondo Fragalà dal tenente Giuliani, ha massacrato i contadini mentre si trovavano nella loro terra. Se giustizia fosse stata fatta, tutti costoro avrebbero dovuto rispondere anche di violazione di domicilio e abuso di potere contro l’esercizio di legittimi diritti, oltre che dell’assassinio di Angelina Mauro, di Giovanni Zito e Francesco Nigro e del ferimento di altri 15 contadini, tutti colpiti alle spalle ! Ma giustizia non è stata ancora fatta:
RispondiEliminaLa responsabilità per questa giustizia non fatta è anche di coloro, che pure esercitandosi nella più stanca retorica su questi fatti concludono, poi, che non c’è più nulla da fare, come chiaramente si è espresso , ancora di recente, nell’autorevole sede dell’Università di Cosenza, lo stesso sen. Francesco Spezzano: “ Finiva così, dopo questa legge, la questione del demanio della Sila “ oppure quando si afferma come ha fatto lo storico Rosario Villari, nella sua relazione introduttiva al convegno di Studio Togliatti e il Mezzogiorno “ tenutosi a Bari dal 2 al 4 novembre 1975, che “ la rivendicazione delle terre demaniali usurpate è un vecchio generico motivo di agitazione” .
Ciò, in verità, vuol dire falsare i fatti e la realtà viva del paese; vuol dire scrivere la storia in biblioteca, dando credito alla disposizioni cartacee che sono rimaste tali, senza essere riuscite a diventare realtà, a modificare, quindi, la realtà del Paese. Ecco a proposito atri due esempi concreti di due .ricevute dell’imposta fondiaria carte tra
Paolo Cinanni : Lotte per la terra e comunisti in Calabria (1943-1953)“ Terre pubbliche” e Mezzogiorno prefazione di Umberto Terracini Considerazioni tecnico- giuridiche di Guido Cervati Feltrinelli Editore - Prima edizione Maggio 1977 Prefazione Di UMBERTO TERRACINI
RispondiEliminaNel 1976 il passivo della nostra bilancia alimentare è stato di circa 4 mila miliardi di lire, ma gli esperti prevedono che nel 1977 essa raggiungerà i 5 mila miliardi. Ciò è da addebitarsi prevalentemente alla nefasta politica dell’emigrazione promossa da De Gasperi e perseguita instancabilmente dai governi della Democrazia Cristiana in questo secondo dopoguerra con il rifiuto della riforma agraria pur storicamente matura e la conseguente riduzione alla fame delle popolazioni meridionali. Di qui infatti la fiumana immensa e precipitosa verso tutti i paesi del mondo di oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori italiani e il ritorno aggravato nella nostra penisola del fenomeno delle terre incolte che oggi sono valutate circa 5 milioni di ettari. L’odierna paurosa crisi dell’economia italiana, della quale in deficit della bilancia alimentare è insieme indice e causa primaria, è dunque un frutto attossicato delle scelte che sono state fatte dai governanti negli anni Cinquanta per servire interessi di una classe sfruttatrice e parassitaria, qual è la grande borghesia agraria, e per puntellarne e restaurarne l’arcaico odioso sistema di potere contro la salente impetuosa ondata rinnovatrice.
E’ proprio questa realtà che da carattere di attualità al libro nel quale Paolo Cinanni espone, sulla base della più rigorosa documentazione , le varie vicende di quel grande movimento che, nel primo decennio dopo la fine della guerra, ebbe a protagoniste le popolazioni contadine del Mezzogiorno le quali, con slancio generoso , avevano intrapreso la trasformazione delle campagne attorno ai loro borghi miserandi occupandole e rendendole produttive a forza di braccia e con il sussidio di pochi rozzi primitivi strumenti - cominciando dalle “ terre comuni “ usurpate in un lungo passato grazie all’omertà e alla protezione dei poteri costituiti, Nessuno meglio di Paolo Cinanni avrebbe potuto rappresentarci queste vicende, egli che ne fu partecipe e ben spesso animatore e dirigente nella sua regione, la Calabria, che di esse fu all’epoca teatro preminente. Talchè si può dire si può dire che, narrandole, egli ha anche tracciato nelle grandi linee la propria biografia. Militante rivoluzionario sotto specie cospirativa ai tempi della dittatura e poi combattente nelle formazioni partigiane, fin dai primi giorni della Liberazione Paolo Cinanni aveva infatti prescelto come proprio campo preferito l’attività nella ricostruzione del paese il mondo contadino in funzione della riforma agraria, che egli avvertiva insieme come riscatto mano di immense masse lavoratrici umiliate e calpestate e come esaltazione della potenza generatrice di quegli sterminati spazi che da secoli erano stati sottratti all’opera fecondatrice del lavoro. E prodigando di volta in votale sue energie ora nell’azione politica, in incarichi anche eminenti di Partito, ora nell’attività sindacale, come organizzatore di leghe e dirigente di Camere del Lavoro, sfuggendo così ad orizzonti limitati che caratterizzano ogni specializzazione di campo, egli riuscì a comprendere nel suo intero il grandioso capitolo della storia nazionale in atto che si intitolava alla trasformazione dei rapporti di proprietà della erra e del lavoro nell’agricoltura. Fu questa globalità d’impostazione che portò Paolo Cinanni alla discoperta del valore nodale che, per la realizzazione di una seria e completa riforma agraria aveva nel nostro paese la questione delle “ terre comuni “, altrimenti dette da regione a regione “ terre aperte “ o “ demani comunali” o usi civici, denominazioni che tutte indicano le terre che al tempo delle leggi eversive della fedualità erano state riconosciute come pertinenti indivisibilmente alle popolazioni, ma che poi, con i regimi della restaurazione, erano state riprivatizzate e appropriate alla spuria progenie nata dal congiungimento della superstite nobiltà del blasone con la nuova nobiltà del denaro.
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