Forse il tempo si misura
con le onde delle rughe o forse sono i granelli di terra che scorrono tra le
righe delle mani a raccontarci il sogno che abbiamo vissuto. È stato soltanto un
trascorrere di vento a tagliare la frontiera del mio sguardo che non ha più
incontrato il tuo.
Questo è il primo Natale
che mi raccolgo in solitudine. Senza pensieri. Con l’indifferenza di tutto.
Questo è il primo Natale senza di te, papà.
Te ne sei andato senza
aspettarmi, aggrappato alla maglia della tua compagna di una vita. Mamma Maria.
In silenzio e con la tua antica, coerente e nobile dignità.
Non vorrei parlare e
neppure scrivere ed è come se una ferita nel costato lacerasse ogni parola già scritta già
detta già vissuta. Ed è come se avessi preparato il distacco lentamente
pubblicando i miei due ultimi romanzi “La bicicletta di mio padre” e “Passione e
morte. Claretta e Ben”.
Lo scrittore vive di
profezie nella religiosa immensità del dubbio. Le certezze si affievoliscono e
l’unica verità che conosco resta il dubbio. Non ho la fede dei religiosi che
vivono la chiesa con la liturgia del sempre.
Ho il mistero che inseguo e
mi insegue in una alchimia di segni, simboli, archetipi che non sono storia ma
vivono in un intreccio leggero di
esasperante silenzio.
Ti ho accarezzato nel
freddo della tua solitudine. Per una notte intera. Io e te. Soli. Tu morto ed io
a vegliarti e rapirti l’assenza del pensiero.
Dove stavano i cristiani
oranti a vegliarti? Io cristiano senza chiesa, o danzatore tra le onde, ma con
il fuoco degli sciamani nel cuore ho cercato di spezzare il muro della ragione.
Si è rotto quel muro e ho
capito non la misericordia o la pietà ma il vuoto di una chiesa distante,
indifferente nel vero e altamente retorica, demagogica, senza l’anima degli
orizzonti contemplanti. Il mistero è nel dubbio!
Ho capito definitivamente,
con quella rottura della ragione, che il Cristo che era in te e che è in me non
è il Cristo della liturgia degli altari fittizi e dei tentativi commoventi dei
sacerdoti che ripetono, per tutti, la solita e miserevole predica per un
conforto che non può esistere per chi resta, per chi perde un padre, per chi
perde e la memoria ha i graffi del vuoto e della mancanza.
Ho capito la liturgia di
una chiesa che non mi appartiene.
Mi chiederesti perché?
Forse, non accetteresti neppure questo mio dire.
Mi chiederesti: perché sono
così duro, perché sono senza religione, è la parola che usavi, perché continui a
smarrirti, mi chiederesti.
Ti risponderei. Perché il
conforto, non la consolazione, devi trovarlo nella tua anima, nel tuo sangue
vero, nella pagina della vita che
vivi tutti i giorni e il mio Cristo non è quello che viene recitato dagli
altari, dai sacerdoti che ripetono, ripetono cosa già dette, cosa già scritte e
cercano di spiegare spiegare pagine dei vangeli come se avessero davanti un
popolo gregge.
Non mi appartiene questa
chiesa senza Cristo, senza il mio Cristo.
Io vivo di parole ma anche
di esempi. Io vivo nella scrittura
ma anche nelle azioni che a volte intrappolano l’anima, il cuore, il corpo.
Ti dico questo, caro papà,
perché tu mi hai insegnato ad avere coraggio, perché tu mi hai insegnato a non
mentire, perché tu mi hai insegnato ad amare, perché tu mi hai insegnato il
silenzio, perché tu mi hai insegnato a non tradire la coerenza sia nella vita
sia in quei valori che porto dentro di me e sono i tuoi valori umani e politici.
La chiesa cattolica, te lo
dico proprio oggi che è Natale, non mi appartiene: non mi appartiene la sua
retorica. Noi siamo figli del Francesco di Paola, di Giordano Bruno, di Tommaso
Campanella, di Gioachino da Fiore, di Ernesto Bonaiuti. Cristiani attraversati
dal Cristo senza chiesa. Forse cristiani senza l’obbedienza della chiesa. Io
sono disubbidiente ma ti sono stato accanto e, a modo mio, ho pregato. Con
orgoglio.
Mentre ti scrivevo questa
lettera ho ricevuto una telefonata di una persona che tu hai conosciuto bene e
mi ha detto: “Il nonno ora si riposa un po’. Quanta fatica e quanti progetti.
Bisogna pur riposarsi e godersi il riposo dopo una vita spesa attimo
dopo attimo nella vigilanza del vivere”.
Sapessi che piacere mi ha
fatto ricevere questa telefonata. Credo che sia rimasta religiosamente
irreligiosa nella chiesa ma profondamente vera nella sua spiritualità. Non ha
pronunciato la parola “Condoglianze”. Che brutta parola. Mi sa di condonare la
lagnanza, ovvero il lamento.
Sei morto ed io non ti ero accanto.
Sei morto dopo la liturgia
di una preghiera cristiana ma con il fuoco degli antichi sciamani nell’anima.
Una volta mi hai chiesto:
“Cosa fanno gli scrittori per vivere?”.
Io non ti ho risposto. Ti
ho sorriso come spesso facevi tu per dare un senso e un peso alle domande.
Non ti ho risposto ma
sapevi benissimo cosa facevano e fanno gli scrittori. Si inventano la vita
attraverso le parole. Nell’inquieto esistere.
Negli ultimi giorni mi hai
domandato più volte perdono per le ore, dicevi tu, che perdevo standoti vicino.
“Perdonami, lo so che hai
tante cose da fare, da scrivere. Hai interrotto un viaggio e ti trovo qui.
Questa volta, hai aggiunto, non resisterò altro tempo ma tu perdonami per tutto
il fastidio che ti sto recando”.
Tu mi hai chiesto perdono.
Quanto tempo ho smarrito
tra pagine vuote e incontri inutili. Mi hai insegnato però a non avere mai
rimpianti e mai nostalgie. Mai paure.
Avevi scritto su una pagina
di tronco di albero queste parole: “La parola d’ordine è non arrendersi mai. Mai
fermarsi davanti ad un ostacolo. Si può essere creativi fino all’ultimo istante
di vita”.
Non so se sono parole tue.
Non indagherò. Ma questo era il tuo testamento. E tu stavi progettando la vita,
nella tua lucidità e tra le alchimie che non ti hanno mai abbandonato.
Pensavi al Natale e alle
candele che dovevano contornare lo spazio della palma abbattuta nel tuo e nel
mio giardino. Non hai fatto in tempo. Ti è mancata la pazienza di spezzare la
distanza tra il tempo e la morte ed hai accolto il viaggio con l’indefinibile
gioco delle parti.
È la prima lettera che ti
scrivo ora che non ci sei più. È triste pensarti come assente e per una volta
aggredisco il ricordo e mi riporto alle immagini dei nostri antichi Natali
quando ti facevo trovare la letterina sotto il
piatto.
È passato tanto tempo e le
immagini sono ingiallite.
Sono io a chiederti perdono
per tutto ciò che avrei dovuto dirti.
Sono io a chiederti perdono
per non aver stretto le tue mani nel momento in cui il tuo viaggio si
trasformava in riposo nelle lontananze.
Non è un senso di colpa. I
guerrieri non vivono mai di sensi di colpa e i combattenti, come te, comprendono
l’impeccabilità dell’amore. Guerrieri o combattenti. Anche di fronte alla morte,
al vuoto, alla mancanza.
Voglio affidarti un
pensiero che accompagna spesso i miei passi. Mi appartiene. Ti è appartenuto.
È del mio caro Carlos
Castaneda: “La differenza fondamentale tra l’uomo comune e il guerriero è che il
guerriero affronta tutto come una sfida, mentre l’uomo comune prende tutto come
una benedizione o una sciagura”.
Per te papà.
Nel mio primo Natale senza
di te, in Cristo. Prego, a mio modo, per viverti intensamente con l’amore che ti
porto. Il mistero è nel mio dubbio. Ma tu camminami
accanto.
di Pierfranco Bruni
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