Manchiamo di coraggio.
Le parole di Oriana Fallaci sono la corazza
che l’Occidente dovrebbe
recuperare per difendere l’identità
di Pierfranco Bruni
Il
deserto, forse l’esilio e le donne che sembrano impastate da intreccio che
recita rivoluzione e senso di una assenza. Passate le parole restano le
immagini e le immagini fanno la storia, la storia di una visione della vita e
dello spazio nel quale si abita la nostra esistenza. Ma forse più della
rivoluzione può la consapevolezza di vivere dentro una temperie fatta di
scontri, di guerre, di viaggi tra il mare, il deserto, le sabbie, le frontiere,
le trincee e gli amori spezzati proprio nel momento in cui si affollano le
comprensioni o le interpretazioni dei destini.
Una
storia. Certo, quella di Oriana Fallaci che non ha mai conosciuto rinunce ma è
stata dentro quegli orizzonti tra Occidente e Oriente. Una metà di un Mediterraneo
che è dentro in ognuno di noi.
Una
giornalista che è entrata nella letteratura. Anzi una scrittrice che ha
“fisicamente” e letterariamente “cucinato” il linguaggio giornalistico con
quello di una scrittura rapida, in cui il narrato, il vissuto, il sofferto, il
visto si è trasformato nelle lunghe sfide che hanno abbracciato la vita
trasformandola in un destino proprio sul filo della letteratura. Anche le sue
interviste hanno raccontato, anche le sue interviste hanno fatto storia, anche
le sue interviste sono il narrato di un pezzo di esistenza non solo di Oriana
Fallaci ma di un contesto che è quello di una civiltà che si è giocata la
propria eredità ed identità tra i rossi tramonti abbruniti degli spari tra le
trincee dove gli uomini muoiono veramente e i popoli si sradicano e la ricerca
di una affermazione di umanità.
L’Occidente
con gli Stati Uniti d’America sono stati il perno di una formazione culturale
dentro la quale la controrivoluzionaria Fallaci ha definito la sua non
stanzialità e il suo nomadismo legati ad un bisogno di sapere e di conoscere.
Nel 1969 pubblica la sua esperienza di un anno di guerra in Vietnam in un libro
dal titolo: “Niente è così sia”. Ma sono gli anni di una contestazione non solo
studentesca ma esistenziale. La
Fallaci , come Pasolini, guarda con sospetto i figli di papà
che inneggiano a Che Guevara e crede ben
poco alla risoluzione di quelle piazze occupate in Italia o in Francia. Sembra
tutto ben poca cosa rispetto a ciò che avviene in India, in Pakistan, in Sud
America, in Medio Oriente.
C’è
un Occidente, in quegli anni, che esplora con l’Apollo 12 la luna e un Medio
Oriente in costante conflitto. La
Fallaci non vuole restare soltanto una testimone dei fatti
che raccontano sempre mosaici di vita. Il suo rapporto con Alekos Panagulis,
conosciuto, in Grecia, il 21 agosto del 1973 è uno dei tasselli importanti,
straordinari, unici sia per il suo cammino letterario sia soprattutto per
quello intimo, sentimentale, esistenziale. L’incontro tra i due avviene proprio
nel giorno in cui Panagulis esce dal carcere. Un incontro che diventa una
unione di passione e di condivisioni. Il loro rapporto dura soltanto tre anni,
perché Panagulis muore in un misterioso incidente stradale il 1 maggio del
1976. Una storia, dunque, che racconta la Grecia dei colonnelli e la vita di Un uomo.
Il
suo romanzo del 1979 ha
per titolo, appunto, “Un uomo”. La stessa Fallaci parlando di questo libro, in
una intervista, dirà: “Un libro sulla solitudine dell’individuo che rifiuta
d’essere catalogato, schematizzato, incasellato dalle mode, dalle ideologie,
dalle società, dal Potere. Un libro sulla tragedia del poeta che non vuol
essere e non è un uomo – massa, strumento di coloro che comandano, di coloro
che promettono, di coloro che spaventano…”. Un romanzo nella grecità profonda e
moderna come era stato il suo primo romanzo del 1962 dal titolo: “Penelope alla
guerra”, nel quale si racconta la storia di una donna che non vuole attendere
il suo Ulisse e si metaforizza in una Penelope che viaggia e lascia le mura di
Itaca per penetrare il senso di una identità in una ricerca verso le libertà
come valore di una consapevolezza.
Anche
qui si registra uno scontro diretto con le eredità mediterraneo alle quali la Fallaci si oppone con una
forza umana tutto occidentale e scavata nel proprio tempo senza cedere a
nostalgie o rimpianti che risultano come misure della storia. Due tappe fondamentali
nella scrittrice Fallaci sino ad arrivare agli anni Novanta, passando
attraverso le storie e la storia e soprattutto nel tanto discusso e non
ipocrita “Lettera ad un bambino mai nato” che oggi si presenta come un atto
quasi profetico se si pensa che la prima edizione vide la luce nel 1975, che
vengono caratterizzati dall’imponente romanzo “Insciallah”, pubblicato nel
1990.
Il
romanzo – saggio nasce all’interno di una “sua spedizione” tra le truppe
italiane che erano state inviate nel 1983 a Beirut. Un racconto affascinante
tragico, dolorante e contemplante ma anche irruente. “Non di rado infatti
sfuggo all’esilio delle scartoffie e non osservato osservo. Ascolto, spio, rubo
alla realtà. Poi la correggo, la realtà, la reinvesto, la ricreo, e con l’amletico
scudiero ecco il discepolo generale che crede di poter sconfiggere la Morte , ecco il suo
disincanto ed estroso consigliere, ecco il suo erudito e bizzarro capo di Stato
Maggiore, ecco i suoi ufficiali ora bellicosi e ora mansueti, ecco la
moltitudine sfaccettata della sua truppa…” (Da una lettera del Professore, nel
testo).
Un
filo consistente lega “Insciallah” con
gli scritti successivi. Un Medio Oriente che è sempre più terra di deserti, di
scontri, di viaggi nella tragedia e un Occidente che si affaccia sia
geograficamente che culturalmente ad un Mediterraneo fatto di tanti altri
Mediterranei che si raccontano nelle loro avventure e nei loro ambigui
territori: alla ricerca di una cristianità profonda e di un fondamentalismo
islamico che approderà alla tragedia dell’11 settembre.
Cosa
sono, in fondo, gli ultimi suoi libri: “La forza della ragione”, “La rabbia e l’orgoglio” e “L’Apocalisse” che
racchiude anche “Oriana Fallaci intervista se stessa”? Sono un superamento
culturale sia della storia e identità musulmana sia delle eredità mediterranee.
Il tutto nell’orgoglio di un Occidente che dovrebbe però smettere di tessere e
ritessere quella tela metaforica e reale
incarnata da Penelope. Ormai Penelope è andata alla guerra. L’orizzonte di
sabbia e di deserto, di mare e di acqua e le contraddizioni delle metropoli e
di un Occidente sempre più americanizzato sono in costante conflitto.
La
passione della parola in una scrittrice tra confini. L’Oriente e l’Occidente. E
le donne che restano impastate nella sabbia del deserto e nelle piramidi delle
vetrate dei grattacieli occidentali.
Nata
nel 1929. Muore il 15 settembre del 2006. Non solo una giornalista ma una
scrittrice che ha penetrato i sentieri delle parole attraversando luoghi e
vivendo avventure e destini. Non può che stare con orgoglio e senza pregiudizi
nella storia della letteratura italiana del Novecento. Un Novecento tra
l’Occidente e l’Oriente. In un Occidente che deve trovare il suo orgoglio per
definirsi nella sua maestosa identità.
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