17 LUGLIO 2014 - Un
bracciante, Francesco Antonio Alvaro, di 39 anni, è stato ucciso, a Sinopoli,
in un agguato portato a termine con numerosi colpi d'arma da fuoco mentre stava
accudendo alcuni animali. Il 4 giugno del 2001, Alvaro aveva assassinato a
coltellate la moglie Domenica Penna (23) mentre era ricoverata in ospedale.
Dopo un periodo di detenzione era stato scarcerato. Lascia due figli. Secondo
gli investigatori era imparentato con esponenti della cosca di 'ndrangheta
degli Alvaro. Indagano i carabinieri della stazione di Sinopoli agli ordini del
maresciallo Francesco Montalbano, coordinato dal capitano Maurizio De Angelis,
comandante della Compagnia di Palmi, coordinati dal p.m. Giulia Masci, che si
muove sotto le direttive del procuratore capo della repubblica di Palmi, f,f,.
SINOPOLI (REGGIO
CALABRIA), IL BRACCIANTE AGRICOLO FRANCESCO ANTONIO ALVARO DI 39 ANNI, VEDOVO,
DUE FIGLI, AMMAZZATO A COLPI DI FUCILE CARICATO A LUPARA E ‘FINITO’ CON UN
COLPO DI PISTOLA IN FACCIA, NELLA CAMPAGNE DI SINOPOLI, NEL CORSO DI UN AGGUATO
DI CHIARO STAMPO MAFIOSO, MA NON ERA UN BOSS DELLA ‘NDRANGHETA, NÉ AVEVA
FREQUENTAZIONI COMPROMETTENTI
Domenico Salvatore

La vittima, che era stata vista la sera prima in
paese, aveva un appuntamento con qualche conoscente? Il medico legale giunto
sul posto, per la perizia necroscopica esterna sul cadavere e l’autopsia, che
verrà eseguita oggi o lunedì, a cura del perito settore, nominato dal Tribunale
di Palmi, dovranno chiarire senza ombra di dubbio l’ora ed il giorno in cui è
avvenuto l’omicidio. Dubbi rimangono sulla dinamica della sparatoria. Prima
ipotesi. Il morto aveva un appuntamento con qualche persona o due che conosceva
ed ha intavolato una lunga discussione sfociata in alterco e sparatoria finale.
Seconda ipotesi, i killers incaricati da chi e perché, di eseguire una missione
di morte, sangue, rovina e distruzione, conoscevano bene la vittima designata.
Sapevano delle sue abitudini. L’hanno pedinato in aperta campagna e seguito
fino al luogo dove il pastore teneva le sue pecore; oppure stavano nascosti
dietro una siepe. Giunto a tiro, hanno aperto un fuoco d’inferno. La vittima
colpita alla testa ed al tronco è stramazzata al suolo in un lago di sangue. I
killers dopo aver eseguito gli ‘ordini superiori’, si sono dileguati, prima che
si chiudesse il cerchio delle forze di polizia. Di solito Carabinieri, Polizia
e Guardia di Finanza. Una ‘cintura militare’ intorno al vasto comprensorio.
Alla ricerca dei sicari. Non vi sono, allo stato, novità degne di nota sui
posti di blocco volanti e sulle perquisizioni domiciliari dei pregiudicati
della zona, che sono tanti o sugli stub e sugli alibi-orario. Nemmeno è stata
ritrovata una macchina bruciata od uno scooter, servito per la fuga dei due
giustizieri della notte. Non vi sono stati testimoni. Almeno così sembra.
Ammesso per assurdo che, in una zona ad alta densità mafiosa, qualche ‘scheggia
impazzita’ fosse disponibile a sottoscrivere un verbale e poi a testimoniare in
Tribunale. La indagini per risalire agli esecutori materiali del delitto, al
movente ed agli eventuali mandanti, partono in salita. L’omertà che cuce le
bocche a doppia mandata per paura di rappresaglie e vendette, regna sovrana.
Sul posto oltre al medico legale ed alla ditta del caro estinto, per la
rimozione del cadavere, trasportato all’Istituto di Medicina Legale, anche il
p.m. Giulia Masci, che si muove sotto le direttive del procuratore capo della
Repubblica di Palmi, Emanuele Crescenti. Dopo l’autopsia la salma, verrà
restituita alla famiglia per la celebrazione dei funerali, a cura di don
Antonio Fazzolari, che si svolgeranno a Sinopoli in forma pubblica. Salvo
diversa decisione per motivi di ordine pubblico e sicurezza, del questore di
Reggio Calabria, Guido Nicolò. Si parte dal dossier personale, fascicolo o
cartella giacente presso gli uffici giudiziari. Il 4 giugno del 2001, il
pastore, uccise a coltellate la moglie, Mimma Penna di 23 anni, all’interno di
una corsia dell’ospedale “Scillesi d’America”; nosocomio della cittadina di
Scilla, piccola capitale internazionale del turismo di massa, patria dei Ruffo
di Calabria. Pare sia imparentato con gli Alvaro di Sinopoli, invischiati in operazioni
della DDA di Reggio Calabria. Per le modalità di esecuzione e per la quantità
del piombo impiegato, sembrerebbe un chiaro omicidio di stampo mafioso.
Tuttavia non era un boss della ‘ndrangheta e non emerge neppure, che avesse
frequentazioni a rischio. Tranne il cognato Rocco Frisina, presunto uomo
d’onore, ferito a Delianuova davanti
ad un bar del centro aspromontano con numerosi colpi di pistola, il 3 gennaio del 2008, esplosi da corta distanza da un sicario, che poi si è dato
alla latitanza, ma venne catturato. Subito soccorso da alcuni passanti, il
Frisina venne trasportato all’ospedale di Polistena, da dove è stato poi, fu
trasferito nel Reparto di Rianimazione degli Ospedali Riuniti
di Reggio Calabria, dov’è morto la sera del 5 gennaio 2008. Poche comunque le probabilità, che il fascicolo
rimbalzi sul tavolo della DDA reggina diretta dal procuratore capo della
Repubblica, Federico Cafiero De Raho. Almeno in questa fase.
Francesco Antonio Alvaro, ha visto qualcosa che non
avrebbe dovuto? Ha parlato troppo? Ha ‘pestato i piedi’ di qualche mafioso che
conta nel mondo della malavita? A sfogliare le cronache, sono tanti i pastori
ammazzati a colpi di lupara e pistola. Perchèeeeee? I Carabinieri hanno una
brutta gatta da pelare. Devono interpretare due segnali eloquenti e imboccare la pista giusta, per arrivare alla
soluzione del mistero: il pastore è stato ucciso nei pressi del cimitero; il
pastore è stato prima ucciso a colpi di lupara e poi sfigurato a colpi di
pistola in bocca, se non sul viso. Francesco Antonio Alvaro era imparentato con
i boss omonimi, ma non aveva niente a che spartire con loro. Queste, sono le
prime risultanze. Siamo in una zona dove si spara per poco o niente e la vita
umana non vale nulla. Un territorio in mano alle cosche della ‘ndrangheta,
affermano i rapporti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza e la
relazione annuale della Commissione Parlamentare Antimafia, oggi diretta
dall’onorevole Rosy Bindi. Anche contro i Carabinieri, come ci racconta il
luogotenente Cosimo Sframeli, scrittore e giornalista…” Il 17 giugno 1996, alle ore 23.00
circa, il Vicebrigadiere Salvatore COLTELLLO riceveva, sull’utenza della
caserma, una telefonata anonima che segnalava, in località “Ponte Crasta”, la
presenza di individui sospetti nei pressi di una moto Ape. Il Sovrintendente
avvisava subito il Comandante della Stazione, Maresciallo Capo Pasquale
AZZOLINA, ed entrambi, in uniforme e con l’Uno di servizio, si recavano nella
località indicata. Lì notavano, nei pressi di una moto
Ape, due giovani, conosciuti da loro come i fratelli D’AMATO, cui uno minorenne
di sedici anni, intenti a smontare e trafugare pezzi del motore dal predetto
veicolo in quel luogo accantonato a seguito d’incidente stradale avvenuto il
giorno prima. Alla vista dei Carabinieri i due fratelli nascondevano alcuni
attrezzi all’interno della propria autovettura parcheggiata affianco. Il
Maresciallo AZZOLINA procedeva al controllo dei due giovani e, constatando che
dentro la loro autovettura vi erano vari pezzi di motore, decideva di
accompagnarli in caserma. Li invitava a salire sul mezzo militare, condotto dal
Vicebrigadiere COLTELLO, mentre egli stesso si poneva alla guida della Ritmo,
l’autovettura dei due ladri. L’invito fu accolto senza cenno di opposizione dal
fratello minorenne. Di contro, Rocco D’AMATO, fulmineamente, estraeva dalla
cintola una pistola Beretta calibro 7.65, illegalmente detenuta e portata, ed
esplodeva, da distanza ravvicinata, alcuni colpi di pistola all’indirizzo del
Comandante. AZZOLINA, benché colpito in varie parti del colpo, estraeva,
velocemente, la propria pistola d’ordinanza ma, prima di poter far fuoco, era
attinto da un altro proiettile che lo faceva stramazzare a terra, esamine. Il
Vicebrigadiere COLTELLO, a pochi metri, a sua volta, era colpito da un colpo di
pistola esploso dalla pistola del D’AMATO. L’omicida, avendo raccolto da terra
la pistola d’ordinanza del Maresciallo, si dava a precipitosa fuga, alla guida
della sua Ritmo, insieme al fratello minore. Il Vicebrigadiere COLTELLO,
nonostante ferito, si avvicinò al suo Comandante per cercare di poter dare
aiuto. Si accorgeva, intanto, che i due, dopo aver percorso circa 200 metri,
scendevano dall’autovettura e ritornavano indietro, verso di lui, con il chiaro
e preciso intento di ucciderlo. Erano messi in fuga definitivamente per il
ripetuto uso della pistola d’ordinanza del Vicebrigadiere che sparava contro di
loro.
A quel punto, COLTELLO non poté che constatare
la morte del suo Comandante. Si recava in caserma da dove, ai limiti della
resistenza, riusciva a lanciare l’allarme. In seguito, i colleghi lo
accompagnarono all’Ospedale di Scilla, dove fu sottoposto a intervento
chirurgico. Una notte e un giorno per pensare. Poi, la resa. “Mio figlio vi
aspetta”. Al telefono una voce stanca. Era quello che i colleghi di
Pasquale AZZOLINA attendevano. Sono le 17:00 di martedì. Dopo sedici ore
la caccia all’uomo si era conclusa. Rocco D’ Amato, venti anni appena, si
consegnava nelle mani del Colonnello Gennaro NIGLIO. E confessava: “Ho
sparato al Maresciallo istintivamente, ho perso il controllo di me stesso”.
Contestualmente, erano recuperate le armi, una pistola calibro 7.65 con
matricola abrasa, usata per il delitto, e una pistola calibro 9 parabellum, in
dotazione al Maresciallo e per mezzo della quale aveva tentato una coraggiosa,
quanto vana, reazione di fuoco contro il suo omicida.Un delitto assurdo che
lasciava orfane tre ragazze, Nadia di diciotto anni, Angela di quindici,
Vanessa di sei, che si stringevano attorno alla loro mamma, Marianna CANDELA,
una donna minuta senza più una lacrima da versare per il marito divenuto
orgoglio di un paese, e che lei aveva sempre amato e sostenuto. Un atto
sanguinario senza un movente plausibile e che solo per miracolo non fece
un’altra vittima, il Vicebrigadiere Salvatore COLTELLO (trentaquattro anni),
padre di Sonia (otto anni) e di Federica (due anni). Il Maresciallo AZZOLINA
conosceva bene quel Rocco avviatosi su una brutta china. Più volte lo aveva
ripreso, invitandolo a cambiar vita. “Cercati un lavoro”, gli diceva. E
lui niente. Gli piaceva vedersi additato come balordo. Lavorava su commissione.
Di notte. Furti di autoradio, motori d’auto che rivendeva. Anche lunedì sera
andò così. “Rocco”, gli disse il Maresciallo, “andiamo in caserma”.
I Carabinieri non si aspettavano nessuna reazione. Solo qualche formalità e
avrebbero rispedito a casa i due ragazzi. Invece, no. Fu un attimo. Il giovane
estrasse l’arma dalla cintola e sparò contro AZZOLINA colpendolo al fianco e al
torace. La morte fu immediata. Poi D’AMATO puntò la pistola, alle spalle,
contro il Vicebrigadiere e fece fuoco. Non arrivò a finirlo e fuggì verso
i crinali aspromontani. Con le poche forze rimastegli il Vicebrigadiere
COLTELLO riuscì a giungere in caserma ed avvisare i colleghi di Sinopoli, il
paese vicino, ai quali raccontò i particolari della sparatoria e fornito i nomi
degli assassini. Poi svenne. La casa dei D’AMATO, in un baleno, fu accerchiata
da centinaia di militari. Dentro, Alessandro era ancora in piedi. Si mostrò
stupito quando i Carabinieri gli strinsero le manette ai polsi. Poi, cedette e
confessò la sua partecipazione alla sparatoria, scaricando sul fratello la
responsabilità dell’omicidio. Nella mattinata, il Comandante Generale
dell’Arma, Luigi FEDERICI, giunse a Sant’Eufemia per esprimere il cordoglio dei
Carabinieri: “E’ una ferita profonda nel cuore dell’Arma”, disse il
Generale, “e credo di tutto lo Stato”. Anche il Capo dello Stato rese
omaggio alla salma del Sottufficiale. Le hanno detto: “Tuo padre è stato
ucciso mentre faceva il suo dovere”. Ma Vanessa, con i suoi sei anni e gli
occhi smarriti, si aggrappava alla madre e piangeva solo perché il suo papà non
lo avrebbe rivisto mai più. Gelo e divise riempivano le stanze di quella casa,
dell’alloggio di servizio, proprio accanto alla caserma, dove la famiglia del
Maresciallo Pasquale AZZOLINA, viveva da tempo.
Morì per mano di un balordo. Da dodici
anni rappresentava la legge in terra di mafia e aveva avuto a che fare con
esponenti di spicco della ‘ndrangheta. Né agguato, né imboscata, né esecuzione.
“Li conosceva, li conosceva bene; due fratelli, gentarella, per questo ha
allentato le difese”, diceva il Colonnello Gennaro NIGLIO, Comandante
Provinciale dell’Arma. Ma il balordo, che aveva venti anni, che viveva di
furtarelli e di piccolo spaccio, che rubava le autoradio e quando poteva
un’automobile per poi smontarla e rivenderla pezzo per pezzo, che l’altra notte
fu sorpreso con il fratello sedicenne proprio mentre stavano “cannibalizzando”
una moto Ape incidentata e lasciata su una stradina dismessa all’inizio del
paese, uccise il Maresciallo e ferì il Vicebrigadiere. L’incubo della trappola
di mafia durò poco. Ma la tragedia rimase, tutta intera. Per le famiglie, per
l’Arma, per il paese, 4500 abitanti, che la mattina ebbe una sveglia glaciale.
Perché quel Maresciallo, dopo tanti anni di servizio a Sant’Eufemia, era uno di
loro. Le figlie, come la moglie, vivevano e condividevano la vita di quel
microcosmo. L’Amministrazione comunale preparò e affisse un manifesto che
rendeva bene i sentimenti della gente: “Una vicenda terribile e assurda… un
atto di barbarie scaturito dall’emarginazione e dall’ignoranza ha stroncato la
vita di un uomo buono nell’esercizio del suo dovere… al Maresciallo AZZOLINA
diciamo grazie… ha dato la vita per la nostra città che non lo dimenticherà”.
E in Municipio fu allestita la camera ardente, da dove partirono i funerali che
si svolsero nella Chiesa Madre del paese, in piazza Vittorio Emanuele. Trama e
attori di questa tragedia vera furono tutti noti.Il Maresciallo Capo Pasquale
AZZOLINA fu decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare, alla
Memoria, con la seguente motivazione: “Comandante di Stazione distaccata in
territorio caratterizzato da alto indice di criminalità, veniva fatto segno –
unitamente a militare dipendente ad improvvisa e violenta azione di fuoco da
parte di due malviventi sorpresi in flagranza di furto. Benché colpito in più
parti del corpo, con elevato coraggio e grande determinazione, tentava di
reagire con l’arma in dotazione ma, colpito ancora una volta in parti vitali,
si accasciava esamine al suolo. Fulgido esempio di alto senso del dovere ed elevate
virtù militari, spinte fino all’estremo sacrificio. S. Eufemia d’Aspromonte
(RC), 17 giugno 1996”.Tante le
operazioni di ‘ndrangheta contro il potente casato di mafia degli Alvaro (“Carni i cani” “Pajechi”, “Merri”, “Pallunari”,
“Testazza e Cudalonga”)alleati dei Piromalli di Gioia Tauro e dei Crea di
Rizziconi…“Rete”, Cent’anni di storia,
Matrioska 1 Matriosika 2, Virus, Rilancio, Arca, Paiechi, Meta, Prima luce,
Smirne, Cafè de Paris, Crimine, Carni ‘i cani, Xenopolis…Una zona ad alta
densità mafiosa, dove si spara per uccidere. Dove circolano tante armi, come
dimostrano le operazioni di sequestro di ben numerosi fucili (anche quelli dei
cacciatori rapinati),ed arsenali… kalashnikov, mitragliatrici, pistole,
mitragliette e bombe.
Chi si azzarda a combattere contro la mafia, da questa
parti passa per infame e traditore. Anche il sindaco Domenico Luppino, un sindaco modello dell’ Aspromonte: la lotta
alla 'ndrangheta, gli costa nove attentati in quattro anni e mezzo. Gli hanno
fatto esplodere la tomba del padre, gli ammazzarono il cane, gli distrussero i
campi d'ulivo, gli incendiarono il furgone, lo obbligano a girare scortato, è
costretto a trasferire la famiglia a Reggio Calabria. Il suo ultimo atto
pubblico: l'adesione alla marcia di Locri. Il 5 novembre 2005 sfila con il
gonfalone del paese, contro la 'ndrangheta che ha appena ucciso Franco
Fortugno, vice presidente del consiglio regionale. “Mi hanno dimissionato; ho
perso la mia battaglia. Sono cresciuto in un clima di minacce. La mia famiglia
subiva attentati quando avevo soltanto dieci anni. Solo per un caso fortuito,
una volta, sventarono il mio sequestro. Abbiamo sempre cercato di mediare, come
fanno in tanti, tentando di arrivare a un compromesso. L'ho fatto anch'io. Poi
a 40 anni mi sono stancato. Quando mi hanno eletto, pensavano che l'avrei
tenuta la testa bassa, come sempre. Perché sono stato eletto con i voti buoni e
con i voti mafiosi. Bisogna capire: chi fa il sindaco, qui, ha sempre un conto
da saldare. E io non l'ho mai saldato: questo vuol dire alzare la testa. Anche
perché non ero andato in giro a chiedere voti. Così il meccanismo s'è
inceppato: la 'ndrangheta pensa che la cosa pubblica sia un bene da razziare.
Ma di razzie, finché ero sindaco, non se ne facevano. Essere infame è peggio
che essere cornuto. Rappresenta il massimo disvalore di un individuo. Ogni cosa
ti è preclusa. Perdi qualsiasi dignità. E qualunque cosa ti accada, anche la
peggiore, è legittima: te la sei meritata”.
Domenico Salvatore
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