Il cervello in presa diretta:
la rivoluzione che ci fa "vedere" pensieri ed emozioni e conoscere il nostro futuro
Milano, 17 ottobre 2013 - Fino a circa 30 anni fa il cervello era una scatola nera misteriosa e impenetrabile. Oggi le tecniche di neuroimaging come Risonanza Magnetica e PET rendono possibile osservare in vivo i processi cerebrali e permettono di conoscere le basi del comportamento umano, la sorgente neuronale di pensieri ed emozioni, le strutture cerebrali che ci fanno essere "animali sociali".
Straordinarie le applicazioni in campo medico: dalla possibilità di caratterizzare le malattie neurologiche in base alle alterazioni osservabili del cervello, allamisurazione del volume cerebrale per valutare l'efficacia delle terapie, fino alla possibilità di diagnosticare con decenni di anticipo le malattie neurodegenerative.
Un'avventura affascinante che viene ripercorsa in occasione della mostra "BRAIN. Il cervello, istruzioni per l'uso", che si apre domani a Milano: una grande esposizione di carattere internazionale, organizzata dall'American Museum of Natural History di New York e sponsorizzata da Novartis, che accompagna il visitatore alla scoperta del cervello e delle immense potenzialità e capacità che esso ci offre.
Il cervello in presa diretta: la
rivoluzione che ci fa “vedere” pensieri ed emozioni e conoscere il nostro
futuro
Le tecniche di
neuroimaging come Risonanza Magnetica e PET rendono possibile osservare
in vivo i processi
cerebrali e permettono di conoscere le basi del comportamento umano,
la sorgente
neuronale di pensieri ed emozioni, le strutture cerebrali che ci fanno essere
“animali sociali”.
Straordinarie
le applicazioni in campo medico: dalla possibilità di caratterizzare
le malattie
neurologiche in base alle alterazioni osservabili del cervello,
alla misurazione
del volume cerebrale per valutare l’efficacia delle terapie,
fino alla
possibilità di diagnosticare con decenni di anticipo le malattie
neurodegenerative.
A
Milano in occasione dell’inaugurazione al Museo di Storia Naturale della mostra
BRAIN. Il
cervello, istruzioni per l’uso, neurologi e filosofi si confrontano
sulle
implicazioni scientifiche ed etiche della grande rivoluzione delle neuroscienze.
Milano, 17 ottobre 2013
- Fino a circa 30 anni fa il cervello era una black box, una scatola nera misteriosa e impenetrabile. Con la
rivoluzione delle neuroscienze e l’avvento delle tecnologie di neuroimaging si
è iniziato a guardare all’interno di questa scatola nera e a studiare il
cervello con metodi empirici come ogni altro fenomeno naturale. La distanza tra
cervello, come insieme di neuroni e sinapsi, e mente, dimensione della
soggettività, delle emozioni e dell’esperienza, si è progressivamente ridotta.
E oggi è possibile viaggiare “al cuore del cervello” per osservare in vivo i
processi neuronali che stanno dietro a pensieri ed emozioni, ma anche per
approfondire la conoscenza delle malattie neurodegenerative e trovare la strada
per combatterle in modo sempre più efficace.
Un’avventura
affascinante che viene ripercorsa in occasione della mostra BRAIN. Il cervello, istruzioni per l’uso, che si apre domani a Milano organizzata
dall’American Museum of Natural History di New York in collaborazione con
Comune di Milano-Cultura, Museo di Storia Naturale di Milano, Codice. Idee per
la cultura, 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, Guangdong Science Center, Guangzhou
e Parque de las Ciencias, Granada: una grande esposizione di carattere
internazionale che, attraverso installazioni e risorse interattive, aiuterà a
rivelare, anche a un pubblico non specialistico, i meccanismi che regolano le nostre
percezioni, emozioni, opinioni e sentimenti.
«Per l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla è un’opportunità
importante essere Charity Partner di questo evento che ha i confini ampi di
quell’affascinante universo che è il cervello – dichiara Antonella Moretti, Direttore Generale
AISM - Associazione Italiana Sclerosi Multipla – da anni l’Associazione
promuove e finanzia anche la ricerca scientifica che utilizza le neuroimmagini
di Risonanza Magnetica, indispensabile per diagnosticare in tempi rapidi una
malattia imprevedibile ed evolutiva come la sclerosi multipla e per individuare
i meccanismi che causano la degenerazione del sistema nervoso. Attraverso
“BRAIN” AISM potrà sensibilizzare ampie fasce di concittadini sulla malattia, e
stimolare in particolare i giovani a comprendere il valore essenziale della
ricerca scientifica come strumento di libertà tanto per chi vi si impegna come per
le persone con malattie neurologiche».
Alla vigilia
dell’inaugurazione della mostra, neurologi e filosofi si sono confrontati per
esplorare tutte le implicazioni scientifiche, mediche ed etiche della grande
rivoluzione delle neuroscienze, sostenuta dal continuo sviluppo di tecnologie
di imaging quali la Risonanza Magnetica e la PET. L’incontro è stato
sponsorizzato da Novartis che ha contribuito alla realizzazione dell’edizione
italiana della mostra.
«La mostra, arrivata in Italia grazie alla
sponsorizzazione di Novartis, illustra in modo esemplare quello che sappiamo
oggi sul cervello, ci aiuta a comprendere come funziona e come possiamo
‘prendercene cura’», afferma Georg
Schroeckenfuchs, da pochi giorni Amministratore delegato e Country
President di Novartis in Italia. «Novartis,
tra le prime aziende impegnate in ambito neurologico e psichiatrico, oggi è più
che mai in prima linea nello studio di terapie innovative per diverse patologie
come la sclerosi multipla, che possano migliorare la gestione della malattia e
la qualità di vita dei pazienti».
La sclerosi multipla, malattia degenerativa del
Sistema Nervoso Centrale che in Italia colpisce circa 68.000 persone,
rappresenta uno dei campi più interessanti nell’applicazione delle tecnologie
di neuroimaging per conoscere e diagnosticare le malattie neurologiche. Ma
anche per valutare l’efficacia delle terapie.
Le
tecniche di neuroimaging permettono infatti di misurare l’impatto di nuove
terapie sulla perdita di volume cerebrale o atrofia, aspetto normale del nostro
invecchiamento, che nelle persone con sclerosi multipla avviene in modo da 3 a
5 volte più rapido. La perdita di volume cerebrale, che si riscontra già nelle
fasi iniziali nella sclerosi multipla e continua durante il decorso della
malattia, è associata a perdita di funzioni cognitive e disabilità.
«Misurando
l’atrofia cerebrale in una persona colpita da sclerosi multipla possiamo sapere
se una determinata terapia è più o meno efficace, ovvero se è in grado di
rallentare il processo degenerativo», afferma Giancarlo Comi, Professore di Neurologia e Direttore del Dipartimento
Neurologico e Istituto di Neurologia Sperimentale, Istituto Scientifico San
Raffaele, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Presidente della Società Italiana di Neurologia. «Si
tratta di una misura oggettiva e riproducibile che ci sta dando informazioni
importanti per capire la portata delle terapie innovative contro la sclerosi
multipla».
Oltre
allo studio delle patologie, la grande rivoluzione delle neuroscienze ha ricadute
enormi sulla conoscenza degli elementi profondi che caratterizzano il cervello
e ci permette di capire le stesse basi fisiologiche e psicologiche del
comportamento umano.
«Le tecniche di neuroimaging, mostrandoci in concreto
le basi cerebrali dei nostri comportamenti, ci permettono di superare antichi
pregiudizi filosofici come la contrapposizione tra ragione ed emozione: i
processi del ragionamento presuppongono in realtà la collaborazione tra aree
razionali e aree emotive», afferma Michele Di Francesco, Professore ordinario
di Logica e Filosofia della Scienza e Rettore dell’Istituto Universitario di Studi
Superiori IUSS di Pavia. «Inoltre oggi
possiamo capire il modo in cui il cervello contribuisce alle attività degli
esseri umani in quanto animali sociali: i neuroni specchio, le strutture
cerebrali che permettono la comprensione delle intenzioni altrui, potrebbero
essere la base biologica dell’empatia tra le persone».
Ma
quali sono le principali tecnologie a cui si devono le nuove conoscenze dei processi
cerebrali?
«La Risonanza Magnetica, in continuo
sviluppo, fornisce immagini di estrema accuratezza morfologica e, grazie
all’introduzione di nuove tecniche quantitative e funzionali, è in grado di
rilevare le alterazioni sia di struttura che di funzione associate alle
principali malattie del Sistema Nervoso Centrale», afferma
Massimo Filippi, Professore di
Neurologia, Unità di Neuroimaging, Divisione di Neuroscienze IRCCS e Università Vita-Salute San
Raffaele, Milano e Editor-in-Chief del
Journal of Neurology.
Un’altra
tecnologia, come
la tomografia ad emissione di positroni (PET), basata
sull’osservazione del consumo di glucosio in sistemi cerebrali specifici,
permette di misurare in maniera quantitativa le alterazioni dei sistemi di
neurotrasmissione associate a patologie neurologiche e può aprire addirittura
la strada a diagnosticare con decenni di anticipo le malattie
neurodegenerative.
«La positività dei biomarcatori, soprattutto
delle alterazioni del metabolismo del cervello, ci indica con alta probabilità
già in fase precoce che il soggetto potrà sviluppare una demenza», afferma Daniela Perani, Neurologo, Neuroradiologo e Professore di Neuroscienze all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
«Ci vorranno però ancora molti anni di
ricerca prima di poter intervenire terapeuticamente nella fase pre-clinica: al
momento, la migliore terapia di cui disponiamo per contrastare l’insorgenza
delle demenze è quella di esercitare il cervello quanto più possibile,
attraverso ogni tipo di attività intellettuale, e anche con l’attività fisica
che è molto utile nel migliorare la biochimica del cervello».
Per informazioni:
Ufficio stampa: Pro Format
Comunicazione
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Simona Sappia
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Tel: 06 5417093
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Michele Di Francesco
Professore
ordinario di Logica e Filosofia della Scienza
Rettore
dell’Istituto Universitario di Studi Superiori IUSS di Pavia
Il
cervello ai tempi dello smartphone:
rivoluzione
delle neuroscienze e nuove tecnologie cambiano la nostra idea di “umano”
La rivoluzione delle neuroscienze è ritenuta uno degli
sviluppi scientifici più importanti a cavallo tra la fine del secolo scorso e
l'inizio di quello attuale: quali sono stati i passaggi fondamentali di questa
svolta? È legata solo all’evoluzione della tecnologia o anche ad altri fattori?
Negli ultimi anni la
tecnologia ci ha messo a disposizione apparati straordinariamente potenti per
la visualizzazione dei processi cerebrali, ma la rivoluzione delle neuroscienze
cognitive è in realtà iniziata prima, verso la metà del ’900, quando si è
iniziato a pensare che la mente potesse essere studiata con strumenti empirici,
come un pezzo di natura. Per secoli si è guardato con sospetto all’idea di
studiare su basi scientifiche i fenomeni mentali: a livello filosofico,
prevaleva un modello dualistico, ovvero l’idea che mente e corpo fossero due
cose separate e distinte. In Psicologia negli scorsi decenni si era affermato
l’approccio di tipo comportamentistico, in base al quale si descrivevano i comportamenti
osservabili senza preoccuparsi di capire cosa avvenisse all’interno della
scatola nera, del cervello.
Nel momento in cui le
tecniche di neuroimaging ci hanno permesso di guardare dentro il cervello, è
prevalsa definitivamente l’idea che i processi mentali sono comunque processi
naturali che possono essere sottoposti a indagine empirica per comprenderne non
solo la fisiologia ma anche la patologia, e decidere come intervenire quando il
cervello, come altri organi, si ammala. In questo modo si è potuto riconoscere,
e cominciare a studiare, la stretta correlazione che c’è tra la mente,
dimensione della soggettività, della razionalità, dell’esperienza e dei
desideri, e il cervello, quest’organo biologico meraviglioso e
straordinariamente complesso fatto di neuroni, scambi elettrochimici e sinapsi.
Per secoli filosofi, medici, studiosi della psiche si
sono interrogati sulla natura della mente, proponendo ipotesi, teorie, sistemi.
Poi a un certo punto, appena pochi anni fa, si è potuto guardare direttamente
all’interno del cervello e studiare con metodi scientifici aspetti del suo
funzionamento che prima sfuggivano alla nostra osservazione. In che misura
tutto questo ha cambiato non solo la conoscenza del cervello e della mente ma
la stessa nozione di essere umano?
Certamente
alcune visioni della mente e quindi dell’essere umano sono diventate molto meno
probabili, molto meno difendibili. Sono stati superati alcuni pregiudizi,
soprattutto filosofici, come il fatto che ragione ed emozione siano in contrasto
tra loro. In realtà si è visto che i processi del ragionamento presuppongono la
collaborazione tra aree razionali e aree emotive, che interagiscono in modo
armonioso per produrre un comportamento adattivo in grado di assicurare la
sopravvivenza dell’individuo e della specie. Le conoscenze attuali dei processi
di ragionamento hanno ridimensionato molte teorie, ma questo non significa che
oggi si possa discutere dei fenomeni mentali studiando soltanto il cervello ed
eliminando completamente le scienze umane: quando parliamo dei fenomeni mentali
ci riferiamo a come è fatta la persona, e la persona non è soltanto il suo
cervello, entrano in gioco anche la dimensione psicologica, relazionale,
sociale.
E
certi interrogativi anche di natura filosofica sono ancora attuali: ad esempio,
fino a che punto si può dire che una sensazione di felicità o di tristezza non
sia altro che uno stato cerebrale ovvero un determinato stato elettrochimico di
una materia? Oppure, se vogliamo comprendere la relazione affettiva tra un
bambino e i genitori nei primi mesi di vita, non possiamo utilizzare solo
concetti di tipo neurobiologico, ma dobbiamo fare ricorso anche a categorie di
tipo psicologico, sociologico, culturale.
Una disciplina di grande interesse è quella delle neuroscienze
sociali, ovvero la conoscenza delle basi neurologiche delle emozioni: che
implicazioni può avere questa nuova disciplina sulla conoscenza dell’essere
umano e sulla convivenza tra le persone?
Le neuroscienze
sociali studiano il modo in cui il cervello contribuisce alle attività degli
esseri umani in quanto animali sociali. La scoperta fondamentale è che il
nostro cervello è progettato per essere sociale. Ci sono funzioni cerebrali
progettate per farci parlare, per consentirci di essere animali linguistici che
comunicano con gli altri. Le tecniche di neuroimaging hanno confermato
l’ipotesi che la capacità degli esseri umani di produrre enunciati grammaticali
è innata, biologica, e che le regole fondamentali del linguaggio sono comuni a
tutti i linguaggi. Il nostro cervello ha già una sua grammatica ed è in grado
di riconoscere gli errori. Poi ci sono funzioni cerebrali emotive che ci
aiutano nella relazione con gli altri, permettendoci di entrare in sintonia e
quindi di capirli anche empaticamente. Da questo punto di vista, una delle
scoperte più notevoli, frutto della ricerca italiana, è quella dei neuroni
specchio, ovvero le strutture cerebrali alla base della comprensione delle
intenzioni altrui. I neuroni specchio si attivano sia quando un individuo
prepara una determinata azione, per esempio l’afferrare un oggetto, sia se lo
stesso individuo vede qualcun altro compiere la stessa azione. In entrambi i
casi si attivano le stesse aree pre-motorie, che sono quindi una sorta di ponte
tra individuo e individuo e potrebbero essere la base biologica della
comprensione dell’azione umana e dell’empatia tra le persone.
Altra area di ricerca
nell’ambito delle neuroscienze è la neuroeconomia, ovvero lo studio dei
processi decisionali in ambito economico, che ha messo in discussione l’idea
che i soggetti vadano idealizzati come decisori razionali, idea portante
dell’economia classica. Il funzionamento delle strutture cerebrali legate alla
razionalità e alle emozioni ci dimostra che non è così, che le scelte non sono
frutto di percorsi esclusivamente razionali, ma esistono sistematici errori cognitivi che guidano le nostre scelte.
A proposito di etica, la possibilità di guardare dentro
il cervello e magari di controllarlo, apre la strada a incubi da fantascienza, a
scenari da ‘Grande Fratello’?
Ogni nuovo strumento
di conoscenza può rivelarsi uno strumento di liberazione o di oppressione.
Esiste effettivamente la possibilità di utilizzare i risultati neuroscientifici
per cercare di scoprire i contenuti dei pensieri altrui. E hanno fatto
discutere alcune sentenze di tribunali che hanno concesso delle attenuanti a
persone accusati di crimini sulla base di un’accertata predisposizione
neurogenetica a determinati comportamenti. Altro tema da affrontare è quello
del doping cognitivo, ovvero la possibilità di influenzare le nostre
prestazioni mentali utilizzando dei neurostimolatori. Oppure il rischio di trattare
ogni forma di disadattamento, al di là dei comportamenti chiaramente
patologici, come problema medico, come un “cervello che non funziona”, cercando
magari di mettere a punto una pillola della felicità invece di intervenire sui
determinanti sociali del disagio.
Alla luce dell’evoluzione della società e della cultura
il nostro cervello è lo stesso di 2.500 anni fa? E come sarà il cervello del
futuro?
Negli
ultimi millenni il cervello non è mutato nella sua struttura biologica, ma le
sue prestazioni si sono arricchite grazie all’interazione culturale. Il
cervello è un organo molto plastico, si adatta moltissimo in funzione di come
viene stimolato. La cultura non può cambiare i geni e non possiamo certo
procurarci delle capacità che il nostro cervello non ha, ma vi è un processo di
continuo cambiamento per adeguarsi all’ambiente. Il cervello degli aborigeni
australiani e quello degli abitanti di New York hanno gli stessi principi
biologici, ma la gamma di rapporti con l’ambiente, le abitudini cognitive e di
pensiero sono profondamente diverse. E anche il cervello dei ragazzi di oggi
certamente si adatta all’esposizione a smartphone, computer e tablet che
avviene fin dai primi anni di vita. La base biologica è uguale, ma è
l’organizzazione che cambia.
E
questo è solo il principio: con le nuove tecnologie, i nuovi modi di interagire
mente-macchina, si delineano una serie di processi che possono modificare
profondamente il modo di funzionare del nostro cervello e lasciano intravedere
anche un cambiamento più radicale. È il grande tema del post-umanesimo, della
possibilità di andare oltre i limiti della nostra specie: la tecnologia e la
nostra cultura scientifica potrebbero modificare la nostra biologia, lo stesso
modo di funzionare del cervello. Quali saranno le conseguenze? E le nostre
responsabilità etiche? Ancora una volta, come si vede, la neurobiologia non
annulla lo spazio della filosofia e i problemi filosofici ritornano in forme
nuove.
Disclaimer
I contenuti di questa intervista sono stati
elaborati sulla base di dichiarazioni rilasciate direttamente dal Professor
Michele Di Francesco e vengono diffusi previa sua approvazione e sotto sua
responsabilità.
Giancarlo
Comi
Professore
di Neurologia, Direttore Dipartimento Neurologico e
Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE), Istituto Scientifico San Raffaele,
Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
Presidente
della Società Italiana di Neurologia
Misurare il volume del cervello per valutare l’efficacia
delle terapie: l’esempio della sclerosi multipla
Quali
sono i più significativi passi avanti nella conoscenza delle patologie
neurologiche resi possibili dai progressi raggiunti negli ultimi anni dalle tecniche
di neuroimaging?
Per anni il cervello è rimasto per noi una
sorta di black box, una grande
scatola nera. Poi, all’inizio degli Anni ’80, abbiamo avuto la prima svolta con
la TAC dell’encefalo, che ci ha aperto uno spiraglio. Ma per le nostre conoscenze
sul cervello la vera propulsione è venuta con la Risonanza Magnetica, che in
realtà è un insieme di tecniche basate sullo stesso principio. La Risonanza
Magnetica consente non solo una definizione più precisa della morfologia del
cervello e delle parti che lo compongono, ma anche una maggiore
caratterizzazione del danno strutturale che può interessare alcune sue parti.
Con la Risonanza Magnetica entriamo veramente dentro il cervello e non solo per
guardarne le forme, ma anche per avere maggiori informazioni sulle sue
connessioni strutturali. Un’ulteriore innovazione in tempi più recenti è quella
costituita dalla Risonanza Magnetica Funzionale, che ci offre immagini del
cervello in azione, consentendoci di coglierne aspetti di organizzazione
funzionale. Quest’ultima evoluzione delle tecnologie di neuroimaging ha avuto
ricadute enormi sulla conoscenza degli elementi profondi che caratterizzano il
cervello, fino a darci la possibilità di indagare e comprendere molti aspetti
del funzionamento del cervello come quelli che sono alla base delle nostre
decisioni economiche, al punto di dare vita a una vera e propria nuova
disciplina, la Neuroeconomia.
In definitiva, la possibilità di comprendere
meglio il cervello ci aiuta a capire le basi sia fisiologiche che psicologiche
del comportamento umano. È stata una grande rivoluzione e dal punto di vista
medico ci ha dato la possibilità di valutare in vivo cosa succede nel cervello
in relazione alle varie malattie.
Le
tecniche di imaging rendono possibile osservare il cervello nella sua
fisiologia come nelle sue patologie: come viene valutata una evidenza come
l’atrofia cerebrale, ovvero la perdita di volume cerebrale? Che significato
diagnostico ha e in relazione a quali patologie?
Uno dei parametri che quasi subito si è
rivelato foriero di grandi informazioni è stato proprio quello legato alla
possibilità di misurare il volume del cervello. Grazie ad alcune tecniche,
possiamo misurare in vivo nella persona il cervello e così ottenere le
informazioni che una volta avevamo solo attraverso l’autopsia. La pesatura del
cervello è infatti caratteristicamente uno dei primi passaggi del percorso
autoptico. Queste misurazioni ci hanno confermato in vivo un aspetto che era
già noto dagli studi di anatomia patologia, ovvero il fatto che con il passare
degli anni il cervello comincia progressivamente a ridursi di volume. Questa
perdita di volume cerebrale o atrofia, un aspetto normale del nostro
invecchiamento, avviene in modo accelerato qualora la persona sia affetta da
alcune malattie del Sistema Nervoso Centrale.
Un’opportunità
legata alle tecniche di neuroimaging è quella di poter valutare e osservare
direttamente l’efficacia di nuovi farmaci nella riduzione della perdita di
volume cerebrale: quali sono i vantaggi sia a livello delle sperimentazioni che
nella pratica clinica?
La possibilità di misurare il volume del
cervello ha trovato un’immediata applicazione nelle sperimentazioni cliniche su
fenomeni del Sistema Nervoso Centrale, che si sono avvalse dell’atrofia come marcatore
biologico dell’effetto dei trattamenti.
Premessa di queste ricerche è che il volume
cerebrale è un parametro oggettivo e preciso per capire come sta evolvendo il
cervello nel corso di una malattia degenerativa: quasi tutte le malattie
degenerative comportano infatti la morte accelerata delle cellule nervose e la
progressiva sclerosi. Un fenomeno paragonabile a quello che avviene alla pelle
delle persone quando invecchiano, che raggrinzisce diventando più sottile. Nel
caso del cervello i neuroni che muoiono vengono sostituiti da tessuto fibroso e
questo “raggrinzisce” progressivamente il cervello, riducendone il volume.
Questo processo è variabilmente accentuato nelle persone che soffrono di
malattie degenerative. Quindi misurando l’atrofia cerebrale possiamo sapere se
una determinata terapia è più o meno efficace, ovvero se è in grado di
rallentare il processo degenerativo. La prima vera utilizzazione estensiva
dell’atrofia cerebrale come parametro di efficacia si è avuta proprio nel campo
della sclerosi multipla, perché nei pazienti con sclerosi multipla l’atrofia
cerebrale è accelerata nel suo sviluppo nel tempo rispetto alle persone sane.
I primi tentativi di utilizzare l’atrofia
cerebrale come endpoint secondario nelle sperimentazioni cliniche di nuovi
farmaci per la sclerosi risalgono all’inizio degli anni 2000.
I vantaggi che offre questa metodica sono
diversi: in primo luogo si tratta di una misura oggettiva, anche se influenzata
da molti aspetti come lo stato di idratazione del soggetto, il ciclo mestruale
della donna, fenomeni che condizionano il volume del cervello. Ma questi
aspetti a seguito del processo di randomizzazione sono in genere equamente
distribuiti tra i due bracci della sperimentazione e quindi alla fine la
differenza in termini di atrofia è legata al fatto di ricevere o meno la
terapia. La misura di atrofia inoltre ha una buona riproducibilità, aspetto
importante principalmente nelle sperimentazioni cliniche. Infine si tratta di
una misura che ci offre un impatto globale della terapia sulla struttura
nervosa.
Che
impatto ha l’atrofia cerebrale nella sclerosi multipla? Nel trattamento di
questa malattia in che misura la possibilità di valutare e trattare la perdita
di volume del cervello può favorire il miglioramento delle funzioni cognitive e
il mantenimento delle abilità del paziente?
La sclerosi multipla non controllata comporta
una progressiva degenerazione del tessuto nervoso e questa degenerazione
determina una progressiva perdita delle funzioni del cervello. Siamo in grado
di osservare questo fenomeno proprio alla luce dell’aumento dell’atrofia
cerebrale. Da questo punto di vista esiste una correlazione tra le prestazioni
del cervello e il livello di atrofia: il cervello svolge numerose funzioni, ma
una buona parte della massa del tessuto cerebrale è impegnata in attività
mentali o cognitive.
Proprio per questo l’atrofia cerebrale
correla in particolare con il livello di alterazione delle funzioni cognitive,
oltre che con misure globali di impatto della malattia sulle capacità della
persona, ovvero sulla disabilità. È un tipo di correlazione che è stata
ripetutamente riscontrata non solo nella sclerosi multipla, ma anche nella
Malattia di Alzheimer e in altre demenze. Quindi possiamo usare le validazioni
dell’atrofia per stimare il rischio che ci sia una futura compromissione
cognitiva in chi ancora non la presenta o capire come potrà evolvere in chi ha
già dato qualche segno di alterazione cognitiva.
È evidente che con un trattamento in grado di
ridurre il processo di degenerazione del tessuto nervoso l’atrofia cerebrale si
svilupperà più lentamente e tenderà ad avere la stessa evoluzione che
osserviamo nella persona sana.
Oggi
esistono terapie in grado di ridurre in misura significativa la perdita di
volume cerebrale legata alla sclerosi multipla?
In questi ultimi anni abbiamo visto che
alcune terapie riescono ad avere un effetto molto positivo sulla progressione
dell’atrofia cerebrale. Già alla fine degli Anni ’90 da alcuni studi condotti
anche dal nostro gruppo, era emerso che nelle prime fasi di malattia, terapie
di natura antinfiammatoria erano in grado di esercitare qualche effetto sulla
progressione dell’atrofia, riducendola. Ma le stesse terapie, usate
successivamente, nella fase a ricadute e remissioni o nella fase progressiva di
malattia, non modificavano l’evoluzione dell’atrofia. Invece recentemente
alcuni farmaci come fingolimod si sono rivelati in grado di attenuare
l’evoluzione dell’atrofia cerebrale legata alla sclerosi multipla. E questa è
una conferma di grande importanza sull’efficacia di questi farmaci perché si
riferisce a un parametro che misura l’irreversibilità della degenerazione
causata dalla sclerosi multipla. L’altro aspetto importante è che questo tipo
di beneficio ci offre una prospettiva anche per i danni cognitivi, perché
alcuni studi dimostrano che ridurre la progressione dell’atrofia cerebrale
significa ridurre anche la progressione dei deficit cognitivi.
Disclaimer
I contenuti di questa intervista sono stati
elaborati sulla base di dichiarazioni rilasciate direttamente dal Professor
Giancarlo Comi e vengono diffusi previa sua approvazione e sotto sua
responsabilità.
Massimo Filippi
Professore
di Neurologia, Unità di Neuroimaging, Divisione di Neuroscienze
IRCCS e
Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
Editor-in-Chief
Journal of Neurology
Il cervello in diretta:
la Risonanza Magnetica e i suoi sviluppi
Come si sono evolute in questi anni le
tecniche di neuroimaging? Quali sono le più importanti e su quali principi e
tecnologie si basano?
Durante
gli ultimi 20-25 anni il progressivo sviluppo e utilizzo di tecniche di
neuroimaging sempre più raffinate e sofisticate, sempre meno invasive e
rischiose per i pazienti, hanno migliorato significativamente la nostra
comprensione dei meccanismi fisiopatologici di molte condizioni patologiche.
Queste tecniche hanno inoltre notevolmente semplificato i percorsi della diagnostica
differenziale e sono ormai diventate dei mezzi insostituibili per valutare in
modo accurato e oggettivo l’efficacia di nuovi trattamenti sperimentali che via
via si rendono disponibili nella pratica clinica. Un altro aspetto importante è
inoltre legato all’applicazione di queste metodiche per lo studio dei processi
fisiologici di maturazione ed invecchiamento del Sistema Nervoso Centrale (SNC)
e delle variabili biologiche ad essi associate, quali il genere o la dominanza
emisferica.
Nei primi Anni ’70 nuove tecniche di neuroimaging
cominciarono a fornire “in vivo” informazioni sulla struttura dell’encefalo nei
soggetti sani e sulle modifiche che si sviluppano in corso di malattia. La
tomografia computerizzata (TC) ha segnato un salto quantico nell’individuazione
di patologie che causano alterazioni morfologiche. Tuttavia, ancora più
stimolante è il continuo sviluppo della Risonanza Magnetica (RM), che non solo
fornisce immagini di estrema accuratezza morfologica ma, grazie
all’introduzione di nuove tecniche quantitative e funzionali, è in grado,
meglio di ogni altra tecnica, di rilevare le alterazioni sia di struttura che
di funzione associate alle principali malattie del SNC.
La RM rappresenta l’applicazione nel campo medico del
principio della Risonanza Magnetica Nucleare, la cui scoperta risale a poco più
di 50 anni fa. Tale processo fisico si sviluppa quando un atomo con un numero
dispari di protoni e/o di neutroni è posto in un campo magnetico, il suo nucleo
si allinea in senso parallelo o antiparallelo alla direzione delle linee di
forza del campo stesso e ruota intorno al proprio asse (moto di processione) a
una frequenza specifica (frequenza di Larmor). Se viene fornita energia sotto
forma di onde radio (RF) sintonizzate sulla frequenza di Larmor, il nucleo
assorbe questa energia e si pone in uno stato instabile. Dopo che l’impulso di
RF è cessato, il nucleo ritorna alla condizione originaria emettendo a sua
volta una certa
quantità di energia che viene registrata come un segnale sinusoidale. La fase di ripristino della situazione di allineamento è
influenzata da due costanti di tempo: il T2 determinato dallo scambio reciproco
di energia tra nuclei di idrogeno eccitati ed il T1 definito dalla cessione di
energia da parte dei nuclei eccitati agli atomi che costituiscono l’ambiente
circostante.
Oltre alle tecniche di RM convenzionale comunemente
utilizzate nella pratica clinica, sono state introdotte nuove tecniche di RM,
come ad esempio la RM con trasferimento di magnetizzazione (RM MT) e la RM
pesata in diffusione (RM DT), che consentono una valutazione quantitativa delle
eventuali anormalità presenti.
Nel SNC i protoni possono essere associati a macromolecole,
quali i componenti della mielina e delle membrane assonali, oppure essere
liberi. Le tecniche convenzionali di RM acquisiscono segnali dai protoni
liberi, tuttavia, i due "pool" protonici scambiano continuamente
energia e con l'applicazione di un opportuno impulso di magnetizzazione a una
comune sequenza di RM (generalmente sono usate sequenze pesate in densità
protonica) si può ottenere la saturazione dei livelli energetici dei protoni
legati alle macromolecole con una conseguente riduzione del segnale
registrabile dai protoni liberi. Tale riduzione di segnale sarà più elevata
laddove è maggiore la quantità di protoni legati. Per quantificare questo
effetto e per ottenere conseguentemente un'informazione indiretta
dell’integrità del tessuto in esame, sono pertanto necessarie due sequenze, una
con e una senza l'applicazione dell'impulso di MT. In questo modo, la
differenza tra l'intensità di segnale delle due sequenze può essere
quantificata definendo il rapporto dell'intensità di segnale dei pixel
corrispondenti delle due sequenze. Questo rapporto è noto con il nome di
"MT ratio" (MTR) ed è calcolato per ogni pixel delle due immagini. Il
primo passo nell’analisi quantitativa delle immagini di MT è quindi la
creazione di mappe MTR, prodotte automaticamente dalle due serie d’immagini
acquisite. In queste mappe ogni pixel sarà caratterizzato da un valore di MTR e
non da un valore d’intensità di segnale.
La RM pesata in diffusione studia invece la diffusione delle
molecole di acqua nei tessuti biologici. In un sistema fluido le molecole
d’acqua sono sottoposte a un moto casuale noto come moto browniano, che le
porta a continui scontri e interazioni. Nei sistemi omogenei, poiché la media
degli spostamenti è nulla, non è osservabile nessun moto a livello
macroscopico. Nei tessuti biologici, i movimenti molecolari dell’acqua sono
condizionati dalle dimensioni dell’interstizio e dalla presenza di barriere
semi-permeabili che impongono una direzionalità alle molecole. Nella maggior
parte dei tessuti biologici, cioè, la diffusione non può essere considerata
isotropa e il “coefficiente di diffusione apparente” (ADC) non è uguale in ogni
direzione dello spazio. In particolare, i tessuti caratterizzati da una
struttura poco organizzata, presentano caratteristiche analoghe di diffusione
in ogni direzione, mentre in quelli caratterizzati da un’architettura ordinata,
l’ADC dipende dalla direzione in cui lo stesso viene misurato. Un esempio di
mezzo anisotropo è costituito dalla sostanza bianca (SB) cerebrale, dove la
presenza dei fasci nervosi praticamente non limita la diffusione in direzione
parallela ai fasci stessi, mentre la limita significativamente in direzione
perpendicolare. In queste circostanze, un unico coefficiente scalare è
insufficiente a caratterizzare quantitativamente il fenomeno. Una descrizione
più adeguata può essere ottenuta in termini di tensore, un’entità descritta
matematicamente da una matrice 3x3, simmetrica, i cui termini in diagonale
costituiscono gli ADC misurati nelle tre direzioni ortogonali, mentre i termini
fuori diagonale tengono conto della correlazione esistente fra le componenti ortogonali
stesse. Gli elementi del tensore sono a loro volta ottenibili tramite misure di
RM effettuate in più direzioni.
Un’altra tecnica di interesse nel campo della diagnosi e
della ricerca clinica è la RM spettroscopica del protone, che sfrutta segnali molto
deboli derivanti da atomi contenuti in molecole di interesse biologico, al fine
di ottenere informazioni circa la composizione chimica dei tessuti in esame,
permettendo quindi la quantificazione di una serie di metaboliti cerebrali. I metaboliti comunemente studiati
sono rappresentati dalla colina (che fornisce un’informazione
sul turn-over delle membrane), la creatina (da sola o in forma di
fosfocreatina), l’N-acetilaspartato (che fornisce un’informazione
sull’integrità neuro-assonale) ed il lattato.
Dal 1990 l’uso in vivo dell’imaging funzionale ha
grandemente arricchito le nostre conoscenze sul funzionamento cerebrale.
L’attivazione di una determinata area cerebrale provoca un incremento del
metabolismo neuronale e gliale, associato a un corrispondente aumento del
flusso ematico cerebrale regionale e a un decremento della concentrazione
ematica di deossiemoglobina nell’area attivata, che, a sua volta, determina un
incremento dell’intensità di segnale dell’area stessa su opportune immagini di
RM (RM funzionale-RMF). Con l’introduzione di sequenze “veloci” di RM, è stato,
pertanto, possibile riconoscere, in vivo, le modificazioni di segnale indotte
dalla deossi-Hb, il così detto effetto BOLD (blood oxygenation level dependent). Queste nozioni sono state impiegate
con successo in molti studi ed hanno aperto la strada a un ampio settore di
ricerca focalizzato inizialmente sullo studio delle funzioni cerebrali in
soggetti normali e successivamente allo studio delle alterazioni funzionali
corticali in pazienti affetti da varie patologie neurologiche.
Uno sviluppo recente di questa metodica, la cosiddetta
“resting state fMRI”, ha consentito l’identificazione dei principali network
cerebrali in condizione di assoluto riposo. Chiaramente, questo avanzamento
tecnologico apre notevoli prospettive future per la valutazione del ruolo dei
processi di plasticità e recupero funzionale nei pazienti con grave
compromissione dello stato di coscienza, o con marcata compromissione fisica o
cognitiva, nei quali la somministrazione di un compito attivo non sarebbe
proponibile.
Cosa possiamo effettivamente ottenere
attraverso le diverse tecniche di Risonanza Magnetica circa il funzionamento
del cervello e le sue patologie? Le informazioni del neuroimaging vanno
interpretate? Con che margine di incertezza?
La ricerca nel campo del neuroimaging è mirata alla
comprensione dei correlati strutturali e funzionali delle modifiche del SNC in
soggetti normali e del danno dello stesso in corso di patologia.
Data l'elevata sensibilità della RM nel definire le
dimensioni delle strutture nervose, negli ultimi anni sono state introdotte
numerose tecniche di neuroimaging che, utilizzando
sequenze pesate in T1, consentono di
quantificare il volume cerebrale. Lo sviluppo di metodiche avanzate di analisi
ha inoltre consentito di misurare separatamente le modifiche di volume a
livello della sostanza bianca e della sostanza grigia cerebrali. È ormai chiaro
che l’invecchiamento è associato ad una progressiva riduzione del volume
cerebrale, soprattutto della sostanza grigia, e che tale processo è accelerato
in alcune patologie neurologiche. La maggior parte delle patologie
neurodegenerative mostra una predilezione di danno verso regioni specifiche del
SNC, mentre in altre patologie, soprattutto psichiatriche, può associarsi ad un
incremento di volume di determinate regioni cerebrali che hanno un ruolo chiave
nelle manifestazioni cliniche ad esse associate.
Un aspetto interessante che è emerso
negli ultimi anni è che, sia in soggetti sani che malati, tali modifiche sono
dinamiche e possono essere influenzate da trattamenti farmacologici o
riabilitativi.
L'introduzione delle immagini di RM DT
e della RM MT ha rappresentato invece una notevole innovazione nello studio del
danno microscopico nell'intero cervello o di sue parti, fornendo così
informazioni sui substrati patologici coinvolti nelle diverse patologie.
L'utilizzo della RM DT permette inoltre di indagare “in vivo” l'orientamento e
la distribuzione dei principali fasci di fibre del SNC.
Analogamente alle tecniche di RM strutturale, l'utilizzo
della RMS permette di misurare “in vivo” la quantità di determinate componenti
biochimiche di tessuti biologici, fornendo così informazioni rilevanti sulle
caratteristiche dei tessuti stessi.
L’applicazione
della RMF ha sensibilmente migliorato la comprensione della fisiologia normale della corteccia
umana e della fisiopatologia delle malattie
neurologiche. La RMF fornisce
informazioni uniche sull’abilità del SNC di ri-organizzarsi a seguito del
danno, fornendo, in questo modo, indicazioni importanti sui meccanismi di
recupero funzionale a breve e lungo termine e sulla validità di interventi
terapeutici. Le potenzialità della RMF sono, pertanto, notevoli, andando dalla
definizione di specifiche strutture anatomiche cerebrali, alla pianificazione
pre-operatoria della resezione di tumori cerebrali ed allo studio di patologie
neurologiche, quali l'epilessia o la sclerosi multipla (SM).
La rapida diffusione di queste metodiche è senz’altro legata
alla grande utilità clinica mostrata nella diagnosi precoce di eventi ischemici
e nella comprensione dei meccanismi che portano all'accumulo di disabilità
fisica irreversibile e a compromissione cognitiva nel corso dell'invecchiamento
fisiologico e in diverse malattie neurologiche, comprese la SM e le malattie
neurodegenerative. Tuttavia, l’aumentato utilizzo di nuove tecnologie nella
pratica quotidiana non è scevro da rischi. Innanzitutto, a volte, l’utilizzo di
queste metodiche può portare a risultati di non univoca interpretazione. In
secondo luogo, è necessaria un’attenta standardizzazione delle procedure di
acquisizione e di analisi.
Attraverso l'osservazione ripetuta del
cervello si sono consolidati parametri di riferimento in termini di dimensioni
e altre caratteristiche? In condizioni normali le differenze da un cervello
all'altro sono immediatamente visibili? Esiste una sorta di impronta cerebrale
per ciascun individuo?
Le
tecniche di RM convenzionali, grazie ad un’estrema accuratezza morfologica,
sono dotate di elevata sensibilità nel riconoscere le lesioni macroscopiche
tipicamente presenti nelle varie malattie neurologiche, come ad esempio la sclerosi
multipla o l’ictus. Tuttavia per ottenere una migliore definizione dei
differenti substrati patologici delle lesioni e quantificare il danno medesimo
è necessario ricorrere a metodiche avanzate di RM che richiedono l’utilizzo di
strumenti più sofisticati e tempi di elaborazione più lunghi.
In questi anni, lo studio di soggetti sani mediante
tecniche avanzate di RM ha permesso di definire i range di normalità di misure
cerebrali strutturali, come ad esempio le misure di volume cerebrale, di
sostanza grigia o di sostanza bianca. Analogamente, l’utilizzo di tecniche di
RMF ha evidenziato la presenza dei network cerebrali che si attivano in tutti i
soggetti studiati quando viene svolta una determinata azione, come ad esempio
durante un compito motorio, o durante la semplice presenza di uno stato di
riposo. La definizione di uno stato di normalità ha, chiaramente, facilitato l’individuazione
di condizioni patologiche. Inoltre, lo sviluppo di atlanti anatomici cerebrali
sempre più sofisticati ha permesso una più precisa identificazione e
definizione topografica del danno rilevato.
Negli
ultimi anni, la ricerca di biomarker di RM in grado di identificare in modo
univoco la presenza di una condizione fisiologica o patologica ha acquisito
un’importanza sempre maggiore. Numerosi sono stati, infatti, gli sforzi fatti
per cercare di individuare biomarker di RM di malattie neurologiche, quali la sclerosi
multipla o le malattie neurodegenerative, che potessero essere utilizzati come
endpoint clinicamente rilevanti. Tuttavia, oggigiorno nessuno dei biomarker
attualmente individuati è in grado di riflettere completamente la complessità
dei meccanismi fisiopatologici sottostanti le diverse malattie neurologiche.
Con l'avvento di tecnologie sempre più
potenti quali orizzonti si aprono?
Le potenzialità delle tecniche di neuroimaging sono numerose
e i risultati ottenuti fino ad oggi lasciano intravedere numerose prospettive
per il futuro.
La RM non va più pensata come una
singola metodica di esame con alto valore diagnostico per lo studio delle
patologie neurologiche, ma, piuttosto, come un insieme di tecniche con l’enorme
potenzialità di portare ad una più completa comprensione della fisiopatologia
delle malattie neurologiche e psichiatriche.
Uno
dei più importanti obiettivi del futuro sarà quello di trovare dei marker di RM
che rappresentino al meglio i vari quadri clinici associati alle malattie
neurologiche, in modo da poter migliorare la definizione della prognosi della
malattia in questione e predire un’eventuale risposta terapeutica.
Nel futuro l’utilizzo di studi multi-parametrici di RM avrà,
inoltre, un ruolo di fondamentale importanza nel monitoraggio di terapie
sperimentali volte a modificare favorevolmente l’evoluzione clinica delle varie
condizioni neurologiche.
Un altro aspetto che è degno di essere ricordato è l’attuale
disponibilità di apparecchi di RM ad alto campo (7.0 T o più). I vantaggi
legati all’applicazione di questi magneti sono numerosi. Tra gli altri, i
magneti ad alto campo permettono di ottenere: a) un dettaglio morfologico
sovrapponibile a quello di studi post mortem; ciò ha già fornito dati
interessanti ai fini della diagnosi differenziale nelle patologie della sostanza
bianca; b) la misurazione di metaboliti (glutatione, glutammato) difficilmente
quantificabili con un basso campo; c) una dettagliata localizzazione delle
funzioni neuronali. Chiaramente, la diffusione di questo tipo di
apparecchiature potrebbe contribuire a identificare nuovi modelli di malattia
che potrebbero diventare target di future strategie terapeutiche.
Disclaimer
I
contenuti di questa intervista sono stati elaborati sulla base di dichiarazioni
rilasciate direttamente dal Professor Massimo Filippi e vengono diffusi previa
sua approvazione e sotto sua responsabilità.
Daniela Perani
Neurologo,
Neuroradiologo, Professore di
Neuroscienze
Università Vita-Salute San Raffaele,
Milano
Pre-visioni
del cervello: potremo diagnosticare
e trattare
le malattie neurodegenerative
prima che si
manifestino? Intanto, per contrastare
le demenze
teniamo in esercizio la mente
In che modo le
tecniche di imaging molecolari che studiano in vivo la biochimica del cervello,
come la tomografia ad emissione di positroni (PET), stanno contribuendo a
modificare lo scenario delle neuroscienze?
L’imaging
molecolare PET ha rivoluzionato le neuroscienze permettendoci di valutare su
persone viventi il funzionamento biochimico del cervello e consentendoci di
misurare in maniera quantitativa le alterazioni dei sistemi di
neurotrasmissione associate a patologie neurologiche e anche psichiatriche. Queste
evidenze della ricerca si sono anche integrate nelle applicazioni
clinico-diagnostiche delle malattie neurodegenerative.
L’indicatore
principale di questa tecnologia è un minor consumo di glucosio in sistemi cerebrali
specifici, aspetto che può suggerire la presenza di malattia, supportando la
diagnosi anche da un punto di vista metabolico-funzionale. Se vediamo che in
determinate regioni il cervello consuma male il glucosio, il suo supporto
energetico, significa che i sistemi neurali, implicati in determinate funzioni
cognitive e mentali non funzionano bene, come accade nelle malattie
neurodegenerative associate a demenza.
Dopo
oltre venti anni di studi con queste tecnologie PET, siamo in grado di identificare
e descrivere pattern di modificazione del funzionamento cerebrale caratteristici
delle patologie associate a decadimento cognitivo e demenza. Queste ricerche
sono state di grande importanza, direi rivoluzionaria, nelle neuroscienze,
nella ricerca neurologica e nella diagnostica neurologica. Per esempio nella
malattia di Alzheimer possiamo osservare una riduzione del consumo metabolico
delle aree associative, parietali, temporali, che è diversa dall’alterazione
metabolica associata ad altri tipi di demenza, come quella fronto-temporale,
dove invece si osserva un’alterazione dei lobi frontali e di altre strutture.
Sulla base di queste evidenze negli ultimi anni questa tecnica è stata inserita
tra le prime e più importanti risorse per la diagnosi differenziale delle
demenze e anche per la diagnosi iniziale, precoce, in soggetti che hanno già
dei sintomi, ma lievi.
Nelle patologie
neurologiche, quale può essere il valore predittivo delle indagini in vivo
delle funzioni cerebrali? Si potrà in futuro valutare il potenziale di malattia
e l'eventuale insorgenza di problematiche degenerative?
Il
valore predittivo di queste indagini è elevato per quanto riguarda le demenze:
la positività dei biomarcatori, soprattutto delle alterazioni del metabolismo
del cervello, ci indica con alta probabilità già in fase precoce che il
soggetto potrà sviluppare una demenza. Ma ci sono oggi evidenze che anche in
fase pre-clinica i biomarcatori misurati con tecniche PET possono essere già
alterati. Questo è stato dimostrato nei casi con familiarità o con alterazioni
genetiche specifiche. Però bisogna fare attenzione. La PET, per esempio, può
anche misurare il carico di amiloide, cioè la quantità di una proteina alterata
che si deposita nel cervello nella malattia di Alzheimer. Ma questo
biomarcatore è più problematico perché più si diventa vecchi, maggiore è il
carico di amiloide che possiamo avere nel cervello senza avere la malattia di
Alzheimer e soprattutto senza la certezza di progressione a demenza.
La
questione nasce quindi perché la grande sensibilità di queste indagini potrebbe
permettere di identificare queste alterazioni con vent’anni di anticipo
rispetto alla possibile insorgenza della malattia, in fase pre-clinica quindi e
senza che la persona presenti alcun sintomo. Per alcune persone che presentano
già dei fattori di rischio, la positività dei biomarcatori ci indica un’elevata
probabilità di progressione alla fase di demenza, anche se non siamo in grado
di dire quando.
Quali potrebbero
essere i problemi di natura etica legati alla comunicazione dei risultati e
alle modalità di approccio terapeutico preventivo?
È
evidente che la comunicazione dei risultati della PET al paziente può essere
molto problematica: se parliamo di probabilità c’è anche l’eventualità che la
malattia poi non si verifichi, come nel caso della presenza di amiloide in
quantità non elevata, e allora avremo indotto nel paziente uno stress
fortissimo senza ragione. Se invece l’evidenza PET è certa, questa supporta la
diagnosi clinica o a volte può dare indicazioni diagnostiche più corrette, e
certamente anche prognostiche. Certo, il problema della diagnosi di malattia
che porterà a demenza o la diagnosi di demenza è che comunque non abbiamo
terapie efficaci e quindi insorgono sempre preoccupazioni di tipo etico. Questo
diventa ancora più problematico nel caso di indagine PET pre-clinica, se poi
non c’è terapia. Quindi ci muoviamo ancora e solo sul terreno della ricerca, in
questi casi, ma è importante essere pronti, cioè con le metodiche validate,
standardizzate etc. qualora si dimostrasse che le terapie che sono state usate
finora nella fase conclamata magari sono utili nella fase più precoce o
addirittura pre-clinica.
Quali
scenari diagnostici e terapeutici potrà delineare la prospettiva di riuscire a
identificare i marker predittivi delle patologie neurologiche?
Ci
vorranno ancora molti anni di ricerca prima che le indicazioni ottenute
attraverso queste tecnologie molecolari PET, oggi ormai consolidate, e nelle
linee guida della pratica clinica della diagnosi delle demenze su base
neurodegenerativa, possano diventare effettive indicazioni nelle fasi
pre-cliniche, per applicare corrette e adeguate terapie. Oggi non abbiamo
evidenze che ci dimostrino che sia utile intervenire in fase pre-clinica con
terapie in persone che dal punto di vista genetico appaiono candidate a
sviluppare la malattia. Quello che sicuramente sappiamo è che abbiamo mezzi
diagnostici molto sensibili e i marcatori PET di cui disponiamo ci aiutano a
capire e identificare le alterazioni patologiche sottostanti.
Oggi
però sappiamo anche che il decadimento cognitivo e le demenze possono essere
rallentate anche attraverso strategie non farmacologiche. Ad esempio,
attraverso alcune ricerche che ho condotto, ho potuto dimostrare che un’alta scolarità
e un alto livello di occupazione sono fattori che frenano le alterazioni
neurodegerative nelle demenze e anche nelle persone con un maggior rischio
genetico. Il vantaggio delle persone scolarizzate e con buoni livelli
occupazionali è che nel corso della loro vita hanno potuto costruirsi una sorta
di riserva funzionale cerebrale che rende loro disponibili un maggior numero di
sinapsi: così il loro cervello funziona meglio e mantiene la sua attività anche
in presenza di processi degenerativi. L’attività mentale esercitata lungo il
corso della propria vita è una vera e propria barriera contro le demenze e
tutto questo è misurabile quantitativamente anche attraverso le tecniche PET:
con misure del metabolismo cerebrale si è visto che solo nelle fasi di più
grave deterioramento cerebrale si sono presentati sintomi cognitivi, quindi nelle
fasi molto avanzate della malattia degenerativa.
L’attività
mentale sostenuta lungo l’arco della vita è una grande possibilità di riserva
che sembra influenzare e migliorare anche il funzionamento biochimico del
cervello: ad esempio, abbiamo dimostrato un rafforzamento del sistema
colinergico da cui dipendono la memoria e le attività cognitive. Anche la PET ha
contribuito a dimostrare in modo unico e su basi molecolari che la migliore
terapia di cui disponiamo per contrastare l’insorgenza delle demenze è quella
di esercitare il cervello quanto più possibile, attraverso ogni tipo di
attività intellettuale, e anche con l’attività fisica che è molto utile nel
migliorare la biochimica del cervello.
Disclaimer
I contenuti di questa intervista sono stati
elaborati sulla base di dichiarazioni rilasciate direttamente dalla
Professoressa Daniela Perani e vengono diffusi previa sua approvazione e sotto
sua responsabilità.
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