DALLA LEGGE PICA ALLA LEGGE SULLO
SCIOGLIMENTO
DEI COMUNI PER MAFIA
Con
queste parole potremmo, con buona approssimazione, interpretare il pensiero che
animò Giuseppe Pica, classe 1813, allorquando nell’agosto 1863 dovette
affrontare la “Questione Meridionale: “Il Mezzogiorno è un grande corpo
criminale e bisogna sanarlo con la più dura cura. Occorre un istituto speciale,
una legge eccezionale, onde attuare una grande opera di chirurgia governativa
fatta di amputazioni totali, di radicali punizioni”.
La presenza
di un carattere calcolatamente diffamatorio nei confronti del Mezzogiorno è
ancora perdurante nel 1926, come rileva Antonio Gramsci (classe 1891) quando avverte
l’avanzata di una aberrante ideologia ormai diffusa presso la “illuminata”
civiltà del nord d’Italia, secondo cui: “Il Mezzogiorno è la palla di piombo
che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i
meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei
barbari completi, per destino naturale …”. Molti altri, e fino al primo
cinquantennio del 1900, dovranno testimoniare simili e più dure menzogne nei
confronti del sud.
Ma non
è tanto la severità delle diffamazioni ad impressionarmi, né la ragionata
malignità di quei pensieri; sarebbe un facile uffizio, infatti, smentirli
citando i nostri campioni di intelletto e di filosofia, di cultura e di
scienza, e in ogni epoca; come altrettanto semplice sarebbe controbattere
elencando i massimi servigi offerti dal sud alla prima Italia … Ma non mi
ripiegherò sulla retorica, poiché sono a tutti noi noti i peccati e le menzogne
di certa storiografia.
Non
sono dunque tali parole di disprezzo ad attraversarmi, quanto il fatto che
queste indegne sentenze segnarono l’avvio d’un metodo, d’una ragione, d’un
protocollo secondo cui avviare un processo di deformazione della storia per
asservirla ad un potere che per la prima volta sanciva che la “questione
meridionale”, declinata anche come “questione criminale del Mezzogiorno” poteva
risolversi “non già modificando lo stato delle cose coi mezzi preventivi d’una
coscienza nazionale, bensì coi ferri del chirurgo che estirpa col fuoco senza
domandarsi da dove si è generato il male” (Pasquale Villari, classe 1827).
V’è
un’altra questione sulla quale conviene meditare: col geniale provvedimento
della Legge Pica il particolare veniva assimilato al tutto, l’individuo alla
moltitudine; il crimine, da allora, non sarebbe stato più ricondotto alla
responsabilità di uno o di pochi criminali, ma a tutto il corpo sociale, a
tutto il Meridione, partendo dall’assunto, anch’esso geniale, che uno bastava
per infettare tutti.
Si
faceva strada, insomma, un lessema sul quale, dopo molti anni, si sarebbe
arrotolata la lingua di molti: questo lessema è “contiguità”.
Contiguità
significa “prossimità”, “vicinanza”, come una cosa che accostandosi
ad un’altra la sfiora, la tocca.
Si
tratta di un termine assai “liquido”
che implica, in un tempo, interrelazioni e correlazioni, singolarità e unità
complessiva. Come l’acqua! Essa, infatti, non è altro che una tale moltitudine
di particelle, sebbene ciascuna delle quali non ha legamento né unione con le
altre se non di pura approssimazione e di contatto, di contiguità.
La nostra
comunità, sulla pianura liquida del Mediterraneo, si è sempre raggruppata in
alleanze di sistemi contigui; con essi si inverò il successo di una civiltà composta
dalla comunanza di culture, di istinti e di intuizioni, che garantirono
quell’immensa opera di dialogo tra razze e religioni, con cui formammo un
grande aggregato di popoli diversi e affini, con cui parlammo l’unica lingua in
Europa e nel Mediterraneo capace di creare un legame, un genio, uno stile e un
centro immutabile: la Calabria, Reggio!
Fu
proprio la contiguità a creare la nostra civiltà aperta, troppo aperta. Il 3 luglio
2013, a Bova Marina, un intellettuale Comunista, Pasquino Crupi, classe 1940,
che mi accolse tra i vapori di un sigaro e il profumo di centinaia di libri
accatastati, sospesi e animati, mi disse che la Calabria, semmai, dovrebbe
chiudersi e sarebbe l’ora che ad aprirsi fossero, finalmente, il Nord Italia e
l’Europa. Dagli scritti di Pasquino Crupi io attinsi, per la prima volta, i
termini della “questione meridionale”, che oggi utilizzo pel mio ragionamento.
Comprendete,
allora, come la “contiguità” è grandiosa e drammatica allo stesso tempo.
E’ grandiosa
perché quella contiguità di sistemi fece nascere un sistema antico e codificato
di simboli, un vero e proprio spirito collettivo all’interno del nostro stesso
corpo sociale. Di questo sistema facemmo poi una tradizione, la
rappresentazione dei sentimenti comuni e più estremi, fino alla elaborazione del
dolore e della festa. Simboli e gesti e rappresentazioni che per lungo tempo
resistettero alle articolazioni del linguaggio e anticiparono anche la parola,
meno comunicativa.
E’
drammatica perché codici e simboli nati da quella contiguità di popoli, storie
e culture, furono utilizzati per realizzare un alto grado di coerenza interna
con cui comunicare “messaggi” con facilità, gestire silenzi, utilizzare legami spirituali,
manipolare a proprio uso un inventario di segni. Nacque un “metalinguaggio”, a
volte deteriore, che è quello utilizzato “per dire e non dire”, “essere senza
apparire”.
Sono
due mondi, questi, che si toccano, si accostano; è quello criminale, più
interessato a realizzare alleanze e individuare spazi di azione, a cercare un
contatto, e si avvicina a quell’altro senza dare riferimenti, come un virus che
muti forma per non farsi riconoscere dall’organismo che lo riceverà.
Quale
il rimedio?
Uno
dei più rappresentativi intellettuali della cultura europea, Umberto Eco, ci dice
che occorre “ridurre le nostre
frequentazioni … anche se il nostro sospetto [dell’altro] può essere ingiusto”.
E’
questa la soluzione corretta e matura per la crescita di una coscienza alta e
collettiva? O, piuttosto, il consiglio che ci viene dato dall’intellettuale non
conduce verso una crisi della religiosità della vita che vede nel “prossimo
tuo” il nemico?
Su
questi temi vorremmo che noi ci interrogassimo.
Il timore
di essere “contigui”, proprio a causa della mancanza di precisi riferimenti rispetto
a cui identificarsi e contrapporsi, temiamo possa alterare il senso stesso
della nostra collettività. Questo timore condurrebbe a interiorizzare un
sentimento di pre-paura, un atteggiamento pre-omertoso, di astensione e di
dissociazione dai rapporti umani, di alterazione di un’etica e di una
fisionomia collettiva. Ciascuno di noi diverrebbe giudice, indagatore e
investigatore in proprio, classificatore; ciascuno di noi, divenuto arbitro
preventivo del bene e del male, creerebbe un proprio criterio per giudicare provenienze
e parentele; analizzerebbe, insomma, con l’uso di un proprio formulario, ogni
conversazione o stretta di mano alla ricerca di un doppio senso, di un indizio,
di un gesto da radiografare che possa dirci la storia della persona che abbiamo
davanti. Ma quand’anche scoprissimo, grazie alla nostra investigazione, che la
persona a cui stringemmo la mano era indegna, potrebbe essere troppo tardi per dirci
estranei da essa. Qualcuno ci avrà visto con essa al caffè. Se ciò avviene,
allora dovremmo ammettere che ci troviamo davanti ad una “patologia sociale”.
Riteniamo,
invece, che sia necessario creare un modello sociale di tipo inclusivo, privo
di vuoti, in cui le diverse strutture della Democrazia e dello Stato non si “studino
a distanza” per attendere l’una l’errore dell’altra, ma si assistano, ciascuna
coi propri ruoli e competenze. Se ciò fosse avvenuto, allora si sarebbe
realizzato nel suo significato più pieno un “provvedimento preventivo” per
evitare più gravi conseguenze. Ma poiché ciò non è avvenuto, lo scioglimento
del Comune di Reggio, al di là di ogni analisi esegetica, non può non dirsi “sanzionatorio”,
visto che sospende l’Istituto della Democrazia senza che si sia attivato preliminarmente
alcun meccanismo monitorio.
Il
rafforzamento delle strutture democratiche, la collaborazione tra esse e le
agenzie culturali presenti sul territorio possono costituire la nuova tensione
morale della nostra città per avviare un processo di identificazione e di
contrapposizione rispetto ai fenomeni sociali che tendono a disgregare o
contaminare le espressioni e i luoghi della Democrazia.
E’
questo, allora, il momento dell’impegno più alto. Non possiamo non pensare alle
irripetibili opportunità che la storia si appresta a consegnare alla nostra
città, nella prospettiva dell’Italia, del Mediterraneo e dell’Europa, in cui
Reggio dovrà interpretare, a brevissimo, il ruolo primario della metropoli.
A
questo alto uffizio chiamammo più volte gli intellettuali, poiché la
raccomandazione che noi facciamo ad essi non è tanto l’aderenza al reale,
quanto l’interpretazione d’una visione che, attingendo da questo, conduca verso
l’idea di qualcosa che non s’è ancora veduto o ascoltato, verso un presupposto
sociale. Cosa naturale in un luogo, quale l’Italia, dove la cultura e l’arte
esistono come motivo di vita e come formatrici di opinioni. L’intellettuale,
poi, conosce l’inizio o la fine dell’epoca in cui vive, i suoi elementi
effimeri, i sintomi contingenti, e li supera. Il tempo dell’intellettuale non è
il nostro tempo; egli parla dei secoli, anticipa la storia e i fenomeni; egli,
ancora, è un intermediario tra noi e la storia, crea dalla parte il tutto e
qualcosa dell’immanente dal provvisorio.
Sono
trascorsi circa 3 millenni da quando, da questo stesso luogo, un poeta, il più
sacro tra i poeti, il reggino Ibico, innalzava al cielo i versi per la mia
città. Come lui, questa sera, voglio elevare queste parole, per la madre, per
la nostra patria, per Reggio.
Giuseppe Bombino
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