di Pierfranco Bruni - C’è sempre un tempo che misura distanze. Le civiltà sono
intrecci di etnie e i popoli sono le espressioni di modelli antropologici. La
cultura è la vera manifestazione di una identità. Mentre le letterature sono il
raccordo tra l’anima e l’essere dei linguaggi che provengono da appartenenze.
Ci sono cinque modi di raccontare la storia delle
letteratura intrecciate alle etnie, come si dovrebbe fare.
A.
con una visone prettamente geopolitica.
B.
con una
interpretazione letteraria della storia di un cammino letterario complessivo.
C.
con le
visioni antropologiche che significano tradizioni usi costumi.
D.
con la lettura politica, soprattutto per alcune
Nazioni.
E.
con il viverci dentro la geografia di una città,
di un villaggio, di una comunità: queste diventano insieme popolo e civiltà.
Il viaggio è sempre incompiuto, sino a quando non si smette
di indossare l’abito della pazienza nel raccogliere testimonianze ed
esperienze. Ma occorre sempre conoscere anche per discutere di letteratura di
romanzi di poesia.
Ho tanto viaggiato tra i luoghi e l’immaginario che, a
volte, mi diventa difficile separare la realtà dal pensiero tra i percorsi
dell’immaginario. E ogni volta che ritorno, il ritorno non solo più ad Itaca ma
nella civiltà, ovvero nella mia, ci sono
cumuli di giorni che si impaginano tra bellezze e bruttezze.
Spesso anche in letteratura cerchiamo la bellezza. Ma non
dobbiamo dimenticare che le bruttezze sono espressioni di un popolo e, quindi,
di una civiltà. Io che mi considero Mediterraneo, e lo sono, invito a difendere
i Mediterranei diffusi. Le etnie sono culture diffuse ma anche confuse. Bisogna
abitarle con il coraggio delle distinzioni e delle separazioni.
Ogni storia ha bisogno di esprimersi con la sua eredità
etnica. La letteratura è una etnia di uno scrittore che ha assorbito vissuti.
Roma è tradizione greco – romana, ma è Occidente, nella sua
complessità, pur con echi arabi. Ma è Occidente perché è cristianità e
cattolicesimo. Questo non significa puntualizzare un dato religioso. Piuttosto
culturale. La religiosità intesa come fede è ben altro viaggio, anche
iniziatico e devozionale.
La cultura Occidentale è tradizione nella profezia. Ciò è
tradizione di un Occidente che non è assolutamente un fatto da legare alla
religiosità del sacro. Roma è Occidente sino a quando è rimasta Occidente.
Perché?
Perché ormai non possiamo creare una cultura della
accoglienza della accettazione del bisticcio delle tolleranze delle
incomprensioni tout court. Siamo e restiamo un popolo meticciato, ma restiamo
Occidente con la nostra tradizione.
La letteratura deve necessariamente difendere questi
elementi oltre la cattolicità che diventa l’espressione del confondibile tra
anima e corpo e dell’inconfondibile tra spiritualità ed eros.
Il Mediterraneo è dentro di noi. Il mondo dei Balcani è
completamente distante da un Occidente che è stato virgiliano, nei
comportamenti e non nelle geografie. Troia è Oriente ma è la fiamma il fuoco la
distruzione e anche il tradimento.
Se Troia brucia Itaca è un villaggio smarrito. Se Ulisse è
mito Enea è profezia. Vado oltre in una civiltà del pensiero che bisogna
viverlo come metafisica del tempo dello spazio dell’esistere.
La questione, infatti, resta ancora una. Siamo dentro Omero
o dentro Virgilio?
Il nostro Occidente si dissolve proprio intorno a questa
questione che si apre alla fuga e al ritorno. Siamo l’attesa di Penelope e la
furbizia di Ulisse e il tradimento di Elena con la grecità del conflitto? O
siamo la morte di Didone, il viaggio nella tradizione di Enea e la civiltà
latina che vive la profezia dell’annuncio?
È vero che Roma si è tratteggiata sulla via della Grecia, ma
è anche vero che la Grecia è la sintesi di un Mediterraneo spinto nel mondo
asiatico e nei sottili richiami ottomani. Mentre le fiamme di Troia sono la sconfitta
di Ulisse, e non il coraggio e la vittoria, mentre il coraggio di Enea vive gli Occidenti inviando messaggi alla
latinità che sarà.
La verità è che non abbiamo ancora risolto il problema. E
Dante continua a confondere le impaginazioni tra la verità la salvezza e la
condanna attraverso un processo che resta teologico. Siamo con occhi che non
osservano e con orecchi che ascoltano non la propria coscienza, ma le voci dei
vocabolari.
La divisione, nonostante le ortodossie, i musulmani, gli
ebrei, i cristiani e le eresie, è ancora stretta tra Ulisse ed Enea. I viaggi
di Paolo sono arrivati dopo.
Se restiamo ancorati all’attesa di Penelope e al viaggiante
Ulisse restiamo dentro le spaziature della grecità. Se invece i nostri porti
ancorano le navi di Enea si riscopre una tradizione tra Anchise e Ascanio nella
tragicità di Didone.
Quale è la differenza tra Elena e Didone?
Il punto è anche qui. Siamo eredi di un mito che racconta,
ma anche di una tragedia che non ha ironia. Se Pirandello non avesse inventato
il teatro dei Sei personaggi staremmo ancora a credere nella verità unica. Se
D’Annunzio non avesse parlato della bellezza staremmo ancora a vivere la
grammatica di una letteratura che vive di realtà. Se Pavese non avesse siglato
il destino di Leucò staremmo ancora nel Romanticismo ideologico. Se Berto non
avesse tagliato la leggerezza staremmo ancora nella banalità marxista. E se
Nietzsche non avesse imposto il suo mondo sciamanico staremmo ancora a credere
alla storia. Tutto il resto si radica in alcuni principì tra metafisica e
letteratura oltre la realtà
La letteratura italiana vive in quei processi antropologici
che sono espressione di una civiltà che si manifesta in una visione
profondamente etnica. Non c’è etica nel linguaggio delle letteratura e neppure
ragione. Ma mistero.
Ma il problema ancora si pone. Ulisse ed Enea hanno ancora
un senso. Ammesso che si voglia capire l’intreccio tra Occidente ed Oriente e
tra letteratura, metafisica, vita e mito.
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