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La metafisica impazienza nella scrittura ironico - tragica di Giuseppe Berto di Pierfranco Bruni

La metafisica impazienza nella scrittura ironico - tragica di Giuseppe Berto



di Pierfranco Bruni

 

 



Soprattutto la Venezia de "Il fuoco" di Gabriele D'Annunzio, il senso del tragico e il vissuto di un ricordare  l'inquieto nella memoria,  si ascolta nel labirintico tempo della attesa di una morte paziente che si respira in "Anonimo Veneziano" di Giuseppe Berto. Una Venezia come scenario di vite consumate, le cui macerie di esistenza permettono di ricostruire storie, destini e avventure.

La pazienza della morte in Berto impaziente permette di rendere un romanzo chiave di lettura di un legame, già certamente sperimentato in "La cosa buffa", tra l'ironia la beffa e il tragico. Il buffone richiamato dal personaggio di "Anonimo Veneziano" sembra giocare e costruirsi intorno la struttura di un circo per una recita il cui rapporto è dato dal "maledettismo" legame tra l'esistenza e la musica le cui note sembrano dettate dalle ombre di una città che muore, dalle immagini della Laguna e da un amore perdo mai dimenticato e ritornato proprio nel momento in cui la morte è a due passi dal cancello. La donna è il sentiero della mattina che annuncia la vita del giorno ma è anche la sera. La morte di un amore nel racconto dell'annuncio che tutto sta per finire con le note di un veneziano anonimo in un concerto che accompagna la fine di un tempo.

In D'Annunzio è così. Il racconto di un amore nella storia della decadenza dell'amore. E il tutto nell'immenso scenario devastante che segna il precipitato di esistenze. Non è questione di trama ma fu dare voce al destino dei personaggi. Nei due romanzi,  diversi in molte misure narrative, ci sono i personaggi disperanti che irrompono sullo scenario con le maschere, mai fittizie, della sofferenza che è metro di un arcano dolore di attori che, a un certo punto della loro vita, non sano de in quel particolare momento recitano nella vita o sul teatro.

Da questo punto di vista in Berto c'è non l'umorismo ma la sottile venatura suicida pirandelliana. Di Pirandello, Berto ne conosce i dettagli ed è come se fosse un fu Mattia Pascal lasciato però nel gioco infinito di quei personaggi che si inventano di essere uno  e poi nessuno e poi ancora centomila. Ciò    che è evidente in Berto ha i degni della impazienza. Anzi non conosce la pazienza.

Sia in D'Annunzio che in Pirandello l'impazienza è vissuta anche come la costruzione di una maschera. In fondo tutto è maschera. Dal sublime e l'estasi dannunziani all'umorismo e ironia tragica pirandelliani non di avvertono i degni di una manifesta impazienza. Gli sguardi sono attenzione verso un atto contemplante.

In Berto quello che dovremmo leggere come atto contemplante si trasforma in una profezia tragica. La morte del padre lo accompagnerà non soltanto come un fatto personale in una soggettività in cui l'uomo diventa il confessore di se stesso, ma sarà il destino della confessione dello scrittore. La solitudine dell'uomo è destino come diventa destino il suo non smettere di confrontarsi non solo con il dolore della morte ma con la morte stesso.

Ciò, comunque, è evidenziabile, in Berto, fin dai suoi primi scritti,  ma l'epilogo lo si tramuta in una verità di morte proprio con il dannunziano, non solo manniano (si pensi a "Morte a Venezia" dei Thomas Mann), "Anonimo Veneziano". E qui la morte si annuncia come la fine di tutto. La sua impazienza non ammette distanze con la vita e la vita è un calendario di impazienze lungo i giorno che passano osservando il mare. È figlio di una generazione che ha vissuto la rivolta e la caduta e dopo la caduta riprova un viaggio tra le stanze abitate dalla speranza di Cristo. Un Cristo forse eretico. Il suo Cristo.

Forse cerca ciò che aveva cercato Ignazio Silone e il suo Cristo dialogante con Giuda, con il quale chiude il teatro della vita, non è forse l'uomo che cerca di sfuggire alla morte recitandosi, in silenzio, quella morte felice raccontata da Albert Camus. In fondo, pur nel dolore, anche il senso di morte che si dipana in "Anonimo Veneziano", costituisce una fuga dalla rassegnazione e l'amore tra le rovine di una vita e di una città è, in fondo, chiedere al buio un chiarore tra il bosco  nella tipica visione della metafisica dell'anima di Maria Zambrano.

Berto vive una impazienza metafisica. Nei suoi romanzi tutto sembra muoversi intorno a questo concetto. "Il male oscuro" è una impazienza metafisica. Così come "La cosa buffa". Così come "Il cielo è rosso". Impazienza metafisica è "La gloria". Cosa si saranno detti nell'ultimo abbandono Cristo e Giuda oltre il romanzo di Berto? Forse ciò che si sono detti l'io narrante e l'ultima nota giocata sul pentagramma tra la vita e la morte della scena finale di "Anonimo Veneziano"?

Certo, resta sempre una impazienza metafisica il gioco tra l'uomo e lo scrittore. Forse una solitudine metafisica. Ma mai un'assenza. Forse anche un silenzio metafisico. Uomo di Laguna e di mare. Un viandante tra l'amore il tragico sentire del tempo e la morte.




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Luigi Palamara
Giornalista, Direttore Editoriale e Fondatore di MNews.IT
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