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CONSIGLIO COMUNALE IN RICORDO DI MARCO BIAGI, L'INTERVENTO DEL PROFESSOR GIAN GUIDO BALANDI

Comune di Bologna


CONSIGLIO COMUNALE IN RICORDO DI MARCO BIAGI, L'INTERVENTO DEL PROFESSOR
GIAN GUIDO BALANDI
Si   trasmette  l'intervento  tenuto  da  Gian  Guido  Balandi,  professore
ordinario  di  diritto  del lavoro all'Università di Ferrara, nel corso del
Consiglio  comunale  straordinario  dedicato al ricordo di Marco Biagi, nel
dodicesimo anniversario della sua uccisione.

"Signor   Sindaco,   Signora   Presidente  el  Consiglio, comunale, Signore
consigliere  e  signori  consiglieri,  cara  Marina,  cara Francesca Biagi,
autorità , gentili ospiti.

I  deliranti  criminali  che  dodici  anni  orsono hanno ucciso Marco Biagi
pretendevano con quel delitto efferato di fermare le idee e le proposte che
Marco veniva elaborando in materia di regolazione del mondo del lavoro. Per
lo  studio  e poi per la trasformazione di quelle regole Marco era vissuto,
ma  non  solo per questo: era un uomo equilibrato che sapeva distribuire il
suo  interesse  e  la sua passione su un’ampia tastiera.   Così, ho sempre,
nel mio privato ricordo come in pubbliche occasioni, preferito rievocare la
vita di Marco e non la sua morte.

Credo   così   di  interpretare  laicamente  l’invocazione  della  liturgia
cattolica alla requie dei defunti, e allora annoterò subito che la distanza
tra di noi in materia di religione – lui praticante e io non credente – era
sovente  anche  occasione  di  ironica  e leggera derisione reciproca, come
quella  volta  che – scendendo a rotta di collo il ghiacciaio di Freshfield
alle  falde  della  Presanella  sotto  l’ infuriare di un temporale e tra i
fulmini  che schioccavano provocando il pungente odore di ozono – accusava,
Marco,  il  mio ateismo di averlo trascinato all’ inferno: “senti che puzza
di zolfo …” e ridevamo anche per tenere a bada una certa apprensione. Vent’
anni  dopo sono tornato su quella cima – quel giorno eravamo stati respinti
a  poche  decine  di  metri dalla conquista – proprio nel ricordo di Marco,
consegnato  ad  una  piccola  targa che spero ancora resista, lassù, legata
alla croce di vetta.

La montagna, allora.  Una decina d’ anni dopo l’ inizio della nostra comune
appartenenza  al  gruppo che si riuniva attorno a Federico Mancini e che si
nutriva  della  sua  sapienza  giuridica e della sua straordinaria umanità,
quando i figli primogeniti erano piccoli, avvenne di trascorrere un paio di
vacanze estive insieme in montagna, tra le Dolomiti e l’Alpe centrale.
Marco  era  già  un  montanaro provetto – usava vantarsi del già conseguito
stemma d’oro dei venticinque anni di socio del Club Alpino Italiano, stemma
che  io  ho  raggiunto ben più tardi – io non ero che un appassionato, poco
più che  neofita.
Non  c’è  altra esperienza condivisa che, come l’andare in montagna, con il
silenzio,  il ritmo del corpo che si traspone nello spirito, il contemplare
con umiltà la natura, il misurare le proprie forze, si rifletta nel modo di
essere  di  una relazione, imprimendovi alcuni almeno dei propri caratteri.
E  così  tra Marco e me  ha continuato ad esistere, anche anni dopo, quando
il  suo  vero grande amore sportivo era divenuta la bicicletta, questa zona
di  silenziosa  condivisione.  Quando  poi  avvenne che si sfiorasse anche,
insieme, il pericolo grave, nell’episodio che ho ricordato sopra, allora la
silenziosa condivisione assumeva anche caratteri di un baldanzoso amarcord.

La  bicicletta. Quando vincemmo il concorso a cattedra – due, Marco e io di
una   “banda  dei  quattro”  che  comprendeva  Luigi  Mariucci  e  Marcello
Pedrazzoli, allievi tutti di Mancini - Marco si regalò la Bianchi di colore
verdino  della quale era tanto orgoglioso: “i fili dei freni corrono dentro
alla  struttura”  mi segnalò: credo che allora fosse una grande novità. Con
la  bicicletta  si  muoveva  in  città  –  come  in  quella tragica sera -,
partecipava  ad  esclusive  comitive  politico-professional-competitive, ma
batteva  anche  da  solo  gli  Appennini,  e  almeno una volta all’anno, in
estate,  veniva  a  trovarmi  a  Loiano.  A Pasqua del 2002, nel turbamento
ancora  cocente  di quella assurda morte, trovandomi nel luogo dove eravamo
stati  insieme  per  quella  che era stata quasi l’ultima volta, scrissi di
getto alcune righe, che furono poi pubblicate nella rivista dell’Università
di  Ferrara,  dove  Marco aveva insegnato per un biennio tra gli anni ’70 e
’80.

«Caro Marco
nel sole di agosto
sghembo tra gli alberi
dalla finestra del mio studio
non udrò più sulla ghiaia, irregolare
il ticchettio di quelle tue assurde scarpe
più alte davanti che dietro.
“Babbo, c’ è Marco” “Ciao Lucia.
Buongiorno Signora”
“Oh, Professore, come sta ?”
“Vieni Marchino, accomodati”
E le gambe muscolose e glabre
e le cosce fasciate dai ridicoli
quasi osceni per aderenza pantaloncini da ciclista.
E la maglia sudata (“come un porco” aggiungevi con il tuo riso breve)
“Solo acqua ?” “Solo acqua”
E poi i miei racconti di montagna
E il tuo piccolo rimpianto: l’ Adriatico,
al massimo la bicicletta sulle colline di Romagna;
e i malanni dei genitori.
La guida in montagna è sempre Silvano:
il ricordo ridendo di come la scampammo bella,
quella volta in Presanella.
“E il diritto del lavoro, come sta ?”
“Ha davanti un passaggio duro:
il federalismo può cambiare molto le carte.
Vedremo ad ottobre”
“Ti leggo spesso: la tua Europa non mi convince del tutto.
Ne ho parlato a lungo”
“Con i tuoi amici inglesi e francesi, conservatori come te ?”
“Forse anche un poco di più;
ne parlerò con gli studenti, nel corso autunnale;
loro vi capiranno, voi innovatori !”
S’ è fatto tardi, e il pranzo domenicale non transige;
ti accompagno alla bici: “Occhio alla discesa !”
Un’ ultima risata sicura, e sparisci alla curva dello stradello,
tra i pini e i castagni.»

Il pranzo domenicale in famiglia.  Marco mostrava di vivere la famiglia con
una  seria  compostezza che si distingueva dall’esibito disincanto di altri
di  noi.   Marina,  Francesco,  Lorenzo,  ma  anche i genitori e la sorella
Francesca davano l’ impressione di solidi pilastri che con lui costituivano
un  tutt’insieme  di grande robustezza.  Ma anche su questi si poteva – con
leggerezza  e  autoironia – scherzare: così quando nell’estate del 1982, in
attesa  dei  due rispettivi primogeniti, Francesco nacque qualche settimana
prima  di  Vittoria,  me  lo comunicò ridacchiando “qui sono arrivato prima
io!!”

Quando,   il   19   marzo   2004,  Giorgio  Ghezzi  volle  ricordare  Marco
<raccogliendoci  in  silenzio,  pronunciando  taluno  di  noi, solo qualche
parola  e rifuggendo così dalla consueta liturgia accademica>, richiamai la
consuetudine di Marco di recarsi alla partita con il figliolo Lorenzo, così
mi  aveva  raccontato (vantando anche una qualche discendenza diretta dalla
nota passione calcistica del nostro Maestro Federico, abbonato alla tribuna
del Bologna) e gli dedicai questi struggenti versi di Roberto Roversi

Il giocatore di calcio
pensa all’amico che non c’è;
Può contare sulle dita
i giorni della vita e intorno
il circo dei leoni, le voci si perdono
è il momento di una attesa
nessuna rondine indica speranza
le ombre inducono ad una precipitosa ritirata.
Il nemico all’erta segue le orme della fuga.
Il giocatore di calcio dice
il pallone non finisce
in mare.  Si nasconde fra le nubi.

La  montagna,  la  bicicletta,  la  famiglia:  tre  frammenti  che mi piace
immaginare  scomporsi  e  ricomporsi  come in un luminoso caleidoscopio: in
fondo  così è la vita di una persona nella sua straordinaria e sempre unica
varietà.
Quando,  anni  dopo le escursioni, il formarsi delle famiglie e le vittorie
concorsuali,  giunti  insomma  alla piena maturità – almeno anagrafica - si
insinuò  tra di noi il dissenso scientifico – che per la nostra scienza, il
diritto  del  lavoro,  vuol  dire  dissenso  di  politica del diritto –, la
montagna  continuò a restare, come dire?,  il sorridente avvio di un pacato
dialogare,   che  dalle  cime poteva poi discendere nella pianura inquieta,
turbata,  angustiante  del  “che  fare”,  senza perdere il suo carattere di
serena  trasparenza,  come  un  mattino  presto, ancora semibuio, fuori dal
rifugio, all’attacco di  un ghiacciaio".

--
Luigi Palamara
Giornalista, Direttore Editoriale e Fondatore di MNews.IT
Cell.: +39 338 10 30 287
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