Reggio Calabria 15 luglio 2013 - Proporre “ricette” per superare la grave crisi economica è divenuta una attività tanto diffusa, quanto dimostrativa dal grave stato di confusione di molti analisti, anche di quelli più accreditati. Basta seguire i programmi televisivi dedicati ai problemi economici per accorgersene.
Soluzioni poco chiare e contraddittorie, analisi che si reggono su dati incerti o non verificabili, predizioni tra loro del tutto opposte sul futuro della nostra economia, compongono un quadro poco rassicurante.
Per questa ragione, pur non essendo io un economista, credo sia utile chiarire taluni specifici aspetti dell’attuale congiuntura economica, esaminandone uno per volta.
Recentemente ho scritto che se non si registra una significativa ripresa degli investimenti e dei consumi non si capisce come si possa allentare l’attuale stato di profonda recessione.
La stessa riduzione del costo del lavoro - assolutamente necessaria, da anni invocata dagli imprenditori, che per ragioni che per adesso trascuro di esaminare, la politica non è ancora riuscita a realizzare – non può produrre alcun effetto benefico se non è collegata alla crescita.
Chiunque infatti comprende che nessun imprenditore assumerà dipendenti, sia pure alle condizioni economicamente più favorevoli, se non sarà spinto dalla constatata ripresa della domanda e quindi dalla conseguente convinzione di potere aumentare la propria produzione.
Essendo il lavoro un costo, ridurne il peso ha senso solo se la ripresa è in alto. Ove i consumi dovessero finalmente aumentare, aumenterebbe anche la produzione ed inevitabilmente l’occupazione, così finalmente innescando un circuito virtuoso.
Conclusioni, queste, che sembrano riportarci al punto di partenza. Se non crescono gli investimenti e i consumi e, aggiungerei, se l’esclusiva ossessione restasse il bilancio, non possiamo aspettarci altro che un aggravarsi della recessione.
Al fine di facilitare l’esposizione, mettiamo ora da parte – per esigenza di semplificazione – il problema degli investimenti e concentriamo la nostra attenzione sui consumi. Anzi su di un aspetto ancora più specifico, ossia sulla relazione che intercorre tra questi e l’uso della leva fiscale, ovvero per essere più esatti, tra l’aumento della pressione fiscale e il mantenimento di un accettabile livello dei consumi.
I veri economisti (l’attributo è d’obbligo, data la variopinta pattuglia di burocrati, di agenzie e istituzioni sovranazionali più o meno interessate ad imporre le loro soluzioni; di Paesi stranieri spinti dal progetto di acquisire a prezzi stracciati le nostre aziende), insegnano che la relazione tra l’aumento della pressione fiscale e il mantenimento dei consumi è di tipo analitico. Ossia, la corda che lega queste due variabili dell’economia, se tirata troppo si rompe.
Cosa intendo dire? Immaginiamo un consumo, purtroppo molto diffuso, come quello del tabacco. A pressione fiscale invariata si registra un punto di equilibrio tra prelievo e consumo. Se la prima delle due variabili si riduce, la seconda crescerà. A questo punto occorrerà solo verificare se la riduzione del prelievo fiscale sarà compensata dall’aumento dei consumi che potrebbero addirittura incrementare le entrate in termini di valori economici assoluti.
In altre parole, se si vende di più lo Stato alla fine avrà incassato maggiori tasse, anche se ha diminuito il peso della imposizione fiscale su ogni singola unità di prodotto. Veniamo ora al caso inverso, ossia a quello di un aumento del peso delle tasse. Un modesto aumento del costo delle sigarette indurrà i fumatori a mantenere i consumi. La nostra banale ma comoda esemplificazione ci consegna quindi un modello intuibile e facilmente verificabile. Un ragionevole aumento della pressione fiscale si traduce, ordinariamente, in un aumento del gettito fiscale poiché il consumatore, in questa prima fase, tende a mantenere costante e invariato il livello dei consumi ai quali è abituato.
Ma se la pressione fiscale cresce ulteriormente il nostro modello cambia. All’interno del campione di consumatori considerati, alcuni manterranno i consumi, ma per farvi fronte saranno costretti a ridurre il risparmio, con ciò intaccando i propri risparmi e quindi la ricchezza liquida disponibile. Di conseguenza gli investimenti. Altri consumatori cesseranno i consumi, non potendo più farvi fronte.
A questo punto è già dubbio che l’aumento della pressione fiscale si traduca in un aumento del gettito. Al contrario è possibile che ne ingeneri la riduzione (con effetti negativi sul deficit e sul debito). La caduta dei consumi, infatti, non soltanto cagiona il mancato incasso della quota di gettito riferibile all’incremento di pressione fiscale, bensì dell’intero gettito che lo Stato avrebbe incassato a incidenza fiscale invariata.
Infine nel caso di una ulteriore crescita della pressione fiscale, il terzo modello da noi immaginato ci consegna una novità. L’ideal-tipo di fumatore ha interrotto ogni consumo. Non potendoselo più permettere ha smesso di fumare. Il gettito fiscale è pari a zero, la corda è stata tirata tanto, al punto che si è rotta.
I tre modelli qui esemplificati, pur nella loro astrattezza e banalità ci fanno comprendere il significato e la portata dell’impegno di quella parte della politica che si sta battendo contro l’ulteriore aumento di un punto dell’IVA, ma anche contro l’IMU sulla prima casa.
Infatti, se non aumenterà la ricchezza disponibile, soprattutto per le classi più deboli, i consumi – ed in particolare quelli di massa che maggiormente incidono sulla domanda globale – non ripartiranno e il circuito virtuoso di cui abbiamo prima parlato non si innescherà mai.
fonte: Profilo Facebook del Senatore Nico D'Ascola
Soluzioni poco chiare e contraddittorie, analisi che si reggono su dati incerti o non verificabili, predizioni tra loro del tutto opposte sul futuro della nostra economia, compongono un quadro poco rassicurante.
Per questa ragione, pur non essendo io un economista, credo sia utile chiarire taluni specifici aspetti dell’attuale congiuntura economica, esaminandone uno per volta.
Recentemente ho scritto che se non si registra una significativa ripresa degli investimenti e dei consumi non si capisce come si possa allentare l’attuale stato di profonda recessione.
La stessa riduzione del costo del lavoro - assolutamente necessaria, da anni invocata dagli imprenditori, che per ragioni che per adesso trascuro di esaminare, la politica non è ancora riuscita a realizzare – non può produrre alcun effetto benefico se non è collegata alla crescita.
Chiunque infatti comprende che nessun imprenditore assumerà dipendenti, sia pure alle condizioni economicamente più favorevoli, se non sarà spinto dalla constatata ripresa della domanda e quindi dalla conseguente convinzione di potere aumentare la propria produzione.
Essendo il lavoro un costo, ridurne il peso ha senso solo se la ripresa è in alto. Ove i consumi dovessero finalmente aumentare, aumenterebbe anche la produzione ed inevitabilmente l’occupazione, così finalmente innescando un circuito virtuoso.
Conclusioni, queste, che sembrano riportarci al punto di partenza. Se non crescono gli investimenti e i consumi e, aggiungerei, se l’esclusiva ossessione restasse il bilancio, non possiamo aspettarci altro che un aggravarsi della recessione.
Al fine di facilitare l’esposizione, mettiamo ora da parte – per esigenza di semplificazione – il problema degli investimenti e concentriamo la nostra attenzione sui consumi. Anzi su di un aspetto ancora più specifico, ossia sulla relazione che intercorre tra questi e l’uso della leva fiscale, ovvero per essere più esatti, tra l’aumento della pressione fiscale e il mantenimento di un accettabile livello dei consumi.
I veri economisti (l’attributo è d’obbligo, data la variopinta pattuglia di burocrati, di agenzie e istituzioni sovranazionali più o meno interessate ad imporre le loro soluzioni; di Paesi stranieri spinti dal progetto di acquisire a prezzi stracciati le nostre aziende), insegnano che la relazione tra l’aumento della pressione fiscale e il mantenimento dei consumi è di tipo analitico. Ossia, la corda che lega queste due variabili dell’economia, se tirata troppo si rompe.
Cosa intendo dire? Immaginiamo un consumo, purtroppo molto diffuso, come quello del tabacco. A pressione fiscale invariata si registra un punto di equilibrio tra prelievo e consumo. Se la prima delle due variabili si riduce, la seconda crescerà. A questo punto occorrerà solo verificare se la riduzione del prelievo fiscale sarà compensata dall’aumento dei consumi che potrebbero addirittura incrementare le entrate in termini di valori economici assoluti.
In altre parole, se si vende di più lo Stato alla fine avrà incassato maggiori tasse, anche se ha diminuito il peso della imposizione fiscale su ogni singola unità di prodotto. Veniamo ora al caso inverso, ossia a quello di un aumento del peso delle tasse. Un modesto aumento del costo delle sigarette indurrà i fumatori a mantenere i consumi. La nostra banale ma comoda esemplificazione ci consegna quindi un modello intuibile e facilmente verificabile. Un ragionevole aumento della pressione fiscale si traduce, ordinariamente, in un aumento del gettito fiscale poiché il consumatore, in questa prima fase, tende a mantenere costante e invariato il livello dei consumi ai quali è abituato.
Ma se la pressione fiscale cresce ulteriormente il nostro modello cambia. All’interno del campione di consumatori considerati, alcuni manterranno i consumi, ma per farvi fronte saranno costretti a ridurre il risparmio, con ciò intaccando i propri risparmi e quindi la ricchezza liquida disponibile. Di conseguenza gli investimenti. Altri consumatori cesseranno i consumi, non potendo più farvi fronte.
A questo punto è già dubbio che l’aumento della pressione fiscale si traduca in un aumento del gettito. Al contrario è possibile che ne ingeneri la riduzione (con effetti negativi sul deficit e sul debito). La caduta dei consumi, infatti, non soltanto cagiona il mancato incasso della quota di gettito riferibile all’incremento di pressione fiscale, bensì dell’intero gettito che lo Stato avrebbe incassato a incidenza fiscale invariata.
Infine nel caso di una ulteriore crescita della pressione fiscale, il terzo modello da noi immaginato ci consegna una novità. L’ideal-tipo di fumatore ha interrotto ogni consumo. Non potendoselo più permettere ha smesso di fumare. Il gettito fiscale è pari a zero, la corda è stata tirata tanto, al punto che si è rotta.
I tre modelli qui esemplificati, pur nella loro astrattezza e banalità ci fanno comprendere il significato e la portata dell’impegno di quella parte della politica che si sta battendo contro l’ulteriore aumento di un punto dell’IVA, ma anche contro l’IMU sulla prima casa.
Infatti, se non aumenterà la ricchezza disponibile, soprattutto per le classi più deboli, i consumi – ed in particolare quelli di massa che maggiormente incidono sulla domanda globale – non ripartiranno e il circuito virtuoso di cui abbiamo prima parlato non si innescherà mai.
fonte: Profilo Facebook del Senatore Nico D'Ascola
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