Cinquefrondi (Reggio Calabria9 4 agosto 2013 - «Siamo stati grandi quanto gli altri e qualche volta più degli altri». Così, col prologo del grande maestro saggista sidernese Nicola
Zitara, è stata introdotta a Cinquefrondi nella piazzetta antistante il duomo, cuore del centro storico cittadino, la prima di “1861 – La
brutale verità” un lavoro teatral-recitativo tratto dall’omonimo libro di Michele Carilli autore e co-regista di una rappresentazione
avente lo scopo di divulgare quale fu la vera verità storica malcelata del decennio post-unitario intercorrente tra gli anni 1861-1870. Una
verità cruda, brutale ma necessaria per imboccare la via doverosa della coscienza e della memoria che ci ha reso italiani ed uniti a caro
prezzo. A far vibrare le corde dei sentimenti storici, sul palco, un bravissimo attore, Lorenzo Praticò, con accanto il contrappunto e la
voce solista di Mimmo Martino, frontman dei Mattanza. Un’atmosfera che ha riportato tutti indietro nel tempo, a quelle vicende tristi e
sommerse ma indispensabili «per riprendere – come diceva Zitara - consapevolezza del passato».
Che l’unità potesse essere una evoluzione naturale della nostra storia, forse poteva essere irrefutabile; certo, furono le modalità, discutibili e a volte disumane – come raccontano gli autori - che ebbero più caratteristiche di invasione militare che di pacificazione nazionale, per fare interessi non solo interni e di parte ma anche di potenze economiche estere, quali l’Inghilterra, che inteserò così profittare della riconosciuta floridezza del Regno delle Due Sicilie. E, dunque, un’azione aggiuntiva di calpestio e derisione di una popolazione – come si narra - tutto sommato fino ad allora pacifica e prospera sotto l’egida di un re e di un regno, quello dei Borbone, che garantì fino ad allora una conduzione illuminata. Dalla invasione, progenitrice dell’annessione, se ne ricavò solo emarginazione prima ed emigrazione poi. Quindi, o emigranti o briganti come il Romano o Carmine Crocco, con questi ultimi ad assurgere alla figura di neopatrioti impavidi a contrastare le scorribande garibaldine che razziarono un territorio non solo delle proprie ricchezze ma purtroppo anche della propria identità autoctona, facendola divenire una succursale, un serbatoio, una dispensa quasi un’appendice dell’allora Regno di Sardegna che precorsero, aprendola e senza mai richiuderla del tutto, quella che ancora oggi è menzionata quale «questione meridionale».
Un pubblico attento, contenuto e composto ha fatto da ornamento ad un tema difficile e troppo spesso ancora poco conosciuto, che necessita continua opera di divulgazione per rendere omaggio alla verità. Spettacolo che meritava una migliore propaganda e una migliore cura specie logistica da parte dell’amministrazione comunale, non proprio inappuntabile per l’occasione, che ha costretto tanti ad attrezzarsi con sedute fai da te per potersi godere l’ esibizione e molti altri sprovvisti spettatori intervenuti (specie con figli) da paesi limitrofi, a rinunciare malvolentieri, una volta arrivati sul posto.
Giuseppe Campisi
Che l’unità potesse essere una evoluzione naturale della nostra storia, forse poteva essere irrefutabile; certo, furono le modalità, discutibili e a volte disumane – come raccontano gli autori - che ebbero più caratteristiche di invasione militare che di pacificazione nazionale, per fare interessi non solo interni e di parte ma anche di potenze economiche estere, quali l’Inghilterra, che inteserò così profittare della riconosciuta floridezza del Regno delle Due Sicilie. E, dunque, un’azione aggiuntiva di calpestio e derisione di una popolazione – come si narra - tutto sommato fino ad allora pacifica e prospera sotto l’egida di un re e di un regno, quello dei Borbone, che garantì fino ad allora una conduzione illuminata. Dalla invasione, progenitrice dell’annessione, se ne ricavò solo emarginazione prima ed emigrazione poi. Quindi, o emigranti o briganti come il Romano o Carmine Crocco, con questi ultimi ad assurgere alla figura di neopatrioti impavidi a contrastare le scorribande garibaldine che razziarono un territorio non solo delle proprie ricchezze ma purtroppo anche della propria identità autoctona, facendola divenire una succursale, un serbatoio, una dispensa quasi un’appendice dell’allora Regno di Sardegna che precorsero, aprendola e senza mai richiuderla del tutto, quella che ancora oggi è menzionata quale «questione meridionale».
Un pubblico attento, contenuto e composto ha fatto da ornamento ad un tema difficile e troppo spesso ancora poco conosciuto, che necessita continua opera di divulgazione per rendere omaggio alla verità. Spettacolo che meritava una migliore propaganda e una migliore cura specie logistica da parte dell’amministrazione comunale, non proprio inappuntabile per l’occasione, che ha costretto tanti ad attrezzarsi con sedute fai da te per potersi godere l’ esibizione e molti altri sprovvisti spettatori intervenuti (specie con figli) da paesi limitrofi, a rinunciare malvolentieri, una volta arrivati sul posto.
Giuseppe Campisi

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