Il discorso
di insediamento del secondo Presidente della Repubblica
Eletto Einaudi, “Libertà
contro lo Stato onnipotente”
Venne eletto
al quarto scrutinio. Liberale, denunciò le violazioni del meccanismo della
concorrenza
Luigi Einaudi
È l’11
maggio ‘48 quando Luigi Einaudi viene eletto secondo Presidente della
Repubblica. Ci furono quattro scrutinii: i primi tre videro prevalere, a
livello di voti, Enrico De Nicola (il presidente in carica) e Carlo Sforza, il
candidato di Alcide De Gasperi, che non riuscì ad ottenere tutti i voti
democristiani. Al quarto, venne eletto Einaudi, con 518 voti (su una
maggioranza di 451).
Dal sito del
centro Einaudi, si descrive così la figura di Einaudi:
Fu strenuo
ed efficace difensore della stabilità della lira. In generale, di fronte allo
svilupparsi, sotto lo scudo della vecchia formula del laissez faire, di nuovi e
più pericolosi privilegi e concentrazioni di potere, sostenne sempre più decisamente
posizioni – secondo le sue stesse parole – “neoliberali”: denuncia cioè,
proprio in nome delle premesse ritenute tuttora valide dell’economia classica,
delle crescenti violazioni del meccanismo della concorrenza e richiesta degli
interventi e dei vincoli giuridici necessari a ripristinare e difendere la
libertà di mercato.
Fra le opere
di Einaudi, Lo scrittoio del Presidente, dove si legge:
È dovere del
Presidente della Repubblica di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella
inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o
sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi
incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce.
Einaudi legge il discorso, accanto a lui ci sono
Gronchi e Bonomi; di lato e dietro si vedono Soccimarro e Mattarella
Questo il discorso integrale di insediamento di Einaudi
Signori
Senatori, Signori Deputati!
Il
giuramento che ho testé pronunciato, obbligandomi e dedicare gli anni, che la
Costituzione assegna al mio ufficio, all’esclusivo servizio della nostra comune
Patria, ha una significazione la quale va al di là della scarna solenne sua
forma.
Dinnanzi a
me ho l’esempio luminoso dell’uomo insigne che per il primo ha coperto, con
saggezza grande, con devozione piena e con imparzialità scrupolosa, la suprema
magistratura della nascente Repubblica italiana. Ad Enrico De Nicola va il
riconoscente affetto di tutto il popolo italiano, il ricordo devoto di tutti
coloro i quali hanno avuto la ventura di assistere ammirati alla costruzione
quotidiana di quell’edificio di regole e di tradizioni senza le quali nessuna
Costituzione è destinata a durare.
Chi gli
succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di
manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti suoi
paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italía; ma, come aveva
promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime
repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione. Il
trapasso avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello
Stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo
avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro Paese era
oramai maturo per la democrazia; che se è qualcosa, è discussione, è lotta,
anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine,
vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre.
Nelle vostre
discussioni, signori del Parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle
istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di
rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa: di non poter
partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di
non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa
provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui
a confessare a se stessi di avere, in tutto od in parte, torto e ad accedere,
facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi.Giustino Fortunato,
uno degli uomini che maggiormente onorarono il Mezzogiorno e questa Camera,
sempre fieramente si levò contro le calunnie di coloro i quali, innanzi al
1922, avevano in spregio il Parlamento perché in esso troppo si parlava; ed
ascriveva a sua somma ventura di aver molto imparato ascoltando colleghi, di
lui tanto meno dotti, ed a merito dei dibattiti parlamentari di aver creato un
ceto politico, venuto su dal suffragio a poco a poco allargato e già divenuto
quasi universale, un ceto politico migliore di quello che, all’alba del
Risorgimento, era stato fornito dal suffragio ristretto.
Or qui si
palesa il grande compito affidato a voi, che avete il grave dovere di attuare i
principi della Costituzione ed a me, che la legge fondamentale della Repubblica
ha fatto tutore della sua osservanza.
Tra le due
date, del 1848 e del 1948, ricordate nel giorno centenario da ambedue i vostri
Presidenti, è nato un problema nuovissimo, che nel secolo scorso grandi
pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi
democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette
minoranze di privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali
dinnanzi alla legge. Il suffragio universale pareva ed ancor pare a molti
incompatibile con la libertà e con la democrazia.
La
Costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione
pessimistica dell’avvenire.Essa afferma due principi solenni: conservare della
struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della
libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza
privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la
maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. A quest’opera
sublime di elevazione umana noi tutti, Parlamento, Governo e Presidente, siamo
chiamati a collaborare.
Venti anni
di governo dittatoriale avevano procacciato alla Patria discordia civile,
guerra esterna e distruzioni materiali e morali siffatte che ogni speranza di
redenzione pareva ad un punto vana. Invece, dopo aver salvata, pur nelle
diversità regionali e locali e pur dolorosamente mutilata, la indistruttibile
unità nazionale dalle Alpi alla Sicilia, stiamo ora tenacemente ricostruendo le
distrutte fortune materiali e per ben due volte abbiamo dato al mondo una prova
ammiranda della nostra volontà di ritorno alle libere democratiche competizioni
politiche e della nostra capacità a cooperare, uguali tra uguali, nei consessi
nei quali si vuole ricostruire quell’Europa donde è venuta al mondo tanta luce
di pensiero e di umanità.
Signori
Senatori, Signori Deputati, volto lo sguardo verso l’alto, intraprendiamo
umilmente il duro cammino lungo il quale la nostra tanto bella e tanto adorata
patria è destinata a toccare mete ognor più gloriose di grandezza morale, di
libera vita civile, di giustizia sociale e quindi di prosperità materiale.
Ancora una volta si elevi in quest’Aula il grido di Viva l’Italia!


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